I recenti avvenimenti hanno confermato clamorosamente la tesi, avanzata da un po’ di anni a questa parte dal nostro blog, in particolare da Gianfranco La Grassa, della degenerazione definitiva della sinistra. Mentre la destra si è sottomessa servilmente ad una guerra in clamorosa contraddizione con i precedenti accordi politici, energetici e commerciali con il governo libico (vergognosamente traditi), la “sinistra” (le virgolette sono d’obbligo) è apparsa molto più decisamente schierata a favore dell’ennesimo intervento “umanitario”. Tutti gli esponenti politici, intellettuali e culturali più in vista che fino ad ieri ostentavano il loro “pacifismo” addirittura hanno inneggiato all’aggressione di una piccola nazione, aggravata da giustificazioni spudoratamente menzognere, da parte delle maggiori potenze mondiali. È la dimostrazione definitiva che essa è giunta alla fine del suo corso e che è necessario ricercare nuovi paradigmi sui cui fondare l’azione politica.
È bene chiarire subito che, per la sua forma stessa, questo mio scritto non può essere più di un tentativo sperimentale di introdurre il concetto di relatività nell’ambito dell’analisi politica, e che si trattra di una logica estensione dal lavoro teorico svolto da Gianfranco La Grassa, in particolare dell’ultimo lavoro dal titolo Un nuovo panorama teorico.
Proveremo quindi ad introdurre il concetto di relatività nell’ambito dell’analisi politica, ma tenendo presente che le analogie create dalla traslazione di concetti sviluppati in un ambito scientifico in un altro di solito sono ingannevoli e sono solo analogie, appunto. In questo caso cercheremo di applicare non le leggi della fisica alla società, ma di applicare il concetto logico di relatività elaborato nell’ambito della fisica ai conflitti politici.
Così come il tempo e lo spazio per Newton erano assoluti, non variavano in relazione fra di loro, allo stesso modo per Marx la funzione della lotta di classe non variava, restava un fattore positivo di trasformazione sociale, indipendentemente dal contesto sociale. Per Marx il capitalismo inglese era l’espressione “classica” del Capitale, in quanto sistema sociale unitario meno turbato da residui di precedenti forme di organizzazione sociale. Qui le “leggi” della società capitalistica si presentavano nella forma più pura ed erano, una volta scoperte, applicabili, mutatis mutandis, alle altre società capitalistiche. Naturalmente le forme di organizzazione capitalistica non sono mai pure, ma era questa era un’astrazione scientifica finalizzata all’evidenziazione delle “leggi” della sua “evoluzione”. Il capitalismo inglese poteva essere studiato di per sé stesso, facendo astrazione dalla relazione con altri sistemi sociali, essendo un sistema di coordinate in cui vigevano le stesse leggi di altri sistemi di coordinate sufficientemente simili.
Questo tipo di astrazione di Marx aveva una sua giustificazione teorica in quel contesto storico, poiché come osserva La Grassa:
In una fase storica di eventuale monocentrismo (difficilmente, direi mai, perfetto), può tornare in auge l’attenzione prevalente ai conflitti dei vari gruppi in determinate formazioni particolari; per il semplice motivo che, allora, il campo (mondo) del conflitto tra formazioni particolari è relativamente stabile. Quando il movimento “sussultorio” globale si accentua e lo squilibrio sale fino in “superficie” a modificare incessantemente i cosiddetti “dati del problema”, voler continuare a mettere in posizione prevalente i conflitti “interni” (alla formazione particolare) è attitudine suicida oppure comporta il servizio reso ai gruppi dominanti di una o più formazioni particolari, preminenti nella loro lotta per la supremazia. Esempio tipico quello delle sedicenti “sinistre” italiane (partiti e sindacati) – ammucchiate di rinnegati e traditori postisi al servizio degli Usa già dagli anni ’90 – nel momento in cui si comincia ad indebolire il predominio Usa e la lotta tra formazioni particolari rende più cangiante il campo mondiale del loro conflitto.
Nell’epoca in cui scrisse Marx vigeva il monocentrismo inglese, per cui il conflitto di classe era meno turbato da altri fattori, quali il rapporto con altre formazioni particolari. Esso svolgeva in Inghilterra una funzione progressiva, di avanzamento sociale. È stato molto importante l’aver chiarito che l’imperialismo è in realtà la fase del policentrismo e non semplice dominio su altre nazioni esistente già in precedenza nella forma del dominio inglese. Lo stesso Marx nella misura in cui ci si avviava verso la fine del monocentrismo cambio “punto di vista”, cioè angolazione da cui osservava la realtà sociale, cominciando a tenere in considerazione il conflitto tra le formazioni particolari insieme al conflitto sociale. “Per lungo tempo ho creduto che fosse possibile abbattere il regime irlandese mediante il sollevamento della classe operaia inglese. Ho sempre sostenuto questo parere nella New York Tribune. Uno studio più approfondito mi ha convinto ora del contrario (cit. in Lenin, Sul diritto di autodecisione delle nazioni).”
A tale inizio di mutamento di prospettiva prontamente si richiamò Lenin, il quale operò di fatto un cambiamento di paradigma nell’ambito del marxismo pur pretendendo di restare nell’ambito dell’ortodossia. Con Lenin il contesto internazionale, in particolare la lotta fra le potenze per le sfere d’influenza diventa determinante. Le formazioni maggiormente soggette alla trasformazione rivoluzionaria sono gli “anelli deboli” nel contesto del conflitto fra formazioni particolari.
Questo mutamento di paradigma continuò nella misura in cui si procedeva con l’esperienza della gestione dello stato sovietico. Fin quando i comunisti erano rimasti un movimento di opposizione era stato possibile conservare lo schema dualistico oppressi contro oppressori, dominati contro dominanti, quando i comunisti si trovarono a dover gestire lo stato sorto dalla rivoluzione sovietica questo schema venne meno. Lo stato sovietico si trovò come avversario lo stato inglese, sostenuto da partiti provenienti dal movimento operaio, mentre le offerte di alleanza, subito accolte da Lenin, vennero dall’emiro dell’Afganistan espressione di forze semifeudali. Le conseguenze teoriche che necessariamente ne derivavano furono sviluppate successivamente da Stalin:
Nelle condizioni dell’oppressione imperialistica, il carattere rivoluzionario del movimento nazionale non implica affatto obbligatoriamente l’esistenza di elementi proletari nel movimento, l’esistenza di un programma rivoluzionario o repubblicano del movimento, l’esistenza di una base democratica del movimento. La lotta dell’emiro afghano per l’indipendenza dell’Afghanistan è oggettivamente una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle concezioni dell’emiro e dei suoi seguaci, poiché essa indebolisce, disgrega, scalza l’imperialismo, mentre la lotta di certi «ultra» democratici e «socialisti» «rivoluzionari» e repubblicani dello stampo, ad esempio, di Kerenski e Tsereteli, Renaudel e Scheidemann, Cernov e Dan, Henderson e Clynes durante la guerra imperialista, era una lotta reazionaria, perché aveva come risultato di abbellire artificialmente, di consolidare, di far trionfare l’imperialismo.
La lotta dei mercanti e degli intellettuali borghesi egiziani per l’indipendenza dell’Egitto è, per le stesse ragioni, una lotta oggettivamente rivoluzionaria, quantunque i capi del movimento nazionale egiziano siano borghesi per origine e appartenenza sociale e quantunque essi siano contro il socialismo, mentre la lotta del governo operaio inglese per mantenere la situazione di dipendenza dell’Egitto è, per le stesse ragioni, una lotta reazionaria, quantunque i membri di questo governo siano proletari per origine e appartenenza sociale e quantunque essi siano «per» il socialismo. E non parlo del movimento nazionale degli altri paesi coloniali e dipendenti, più grandi, come l’India e la Cina, ogni passo dei quali sulla via della loro liberazione, anche se contravviene alle esigenze della democrazia formale, è un colpo di maglio assestato all’imperialismo, ed é perciò incontestabilmente un passo rivoluzionario. Lenin ha ragione quando afferma che il movimento nazionale dei paesi oppressi si deve considerare non dal punto di vista della democrazia formale, ma dal punto di vista dei risultati effettivi nel bilancio generale della lotta contro l’imperialismo, cioè «non isolatamente, ma su scala mondiale» .” (Stalin, Principi del leninismo)
Chi come Losurdo, il quale pur ha prodotto degli interessanti lavori finalizzati ad una più comprensiva considerazione storica del periodo staliniano, continua a mantenere uno schema dualistico, Destra/Sinistra, entrambe eternamente espressione della coppia Reazione/Progresso, in realtà fa regredire la teoria rispetto all’esperienza storica del comunismo. Il testo staliniano è chiarissimo, talune forze che secondo lo schema dualistico sarebbero espressione della Reazione in taluni contesti possono svolgere una funzione progressiva. Il concetto di progresso andrebbe recuperato ma depurandolo dalle implicazioni finalistiche, secondo cui la Storia sarebbe direzionata verso il Progresso, molto più sobriamente ci sono conflitti che conducono verso il progresso sociale, nel senso di un miglioramento delle condizioni sociali e altri che vanno verso il regresso cioè verso il loro peggioramento.
Ho sempre pensato che la divisione fra trozkismo e stalinismo fosse indice di un’incapacità di “uscire dal novecento”, tuttavia la persistenza di tale contrapposizione indica effettivamente la presenza di nodi irrisolti, di cui solo la soluzione può portare al superamento di entrambe queste ideologie del passato, ma la soluzione passa per il riconoscimento che la ragione storica stava dalla parte dello stalinismo. In merito, propongo di prendere in esame un intervento di Marco Ferrando non perché egli o il suo gruppo sia rappresentativo, ma perché esemplare nella sua assurdità. Potremmo definire il punto di vista di Ferrando grado zero di relatività: la posizione di Ferrando è ben sintetizzata dal titolo dell’articolo : contro l’intervento imperialista, ma dalla parte della rivoluzione libica. Difatti le argomentazioni di Ferrando sfociano nell’assurdo, dal momento che c’è un preciso rapporto fra aggressione dei paesi “occidentali” e “ribelli” libici i quali hanno invocato tale intervento. Se qualcuno chiedesse dei suoi legami con il Pd, Ferrando direbbe di non aver nulla a che fare con costoro, pur dichiarandosi “di sinistra”. Al di là quello che pensa lui stesso, Ferrando appartiene allo stesso schieramento di Bersani. Il principio base di una certa “ortodossia” marxista è che ogni lotta dei dominati contro i dominati ha un valore positivo, ma nel momento in cui in base a tale principio si diventa di fatto conniventi con l’aggressione “occidentale” alla Libia questo principio sfocia nell’assurdo. Questa posizione la ritroviamo in tutti i gruppuscoli trozksisti. Questa convergenza tra gruppuscoli trozkisti e Pd non la trovo affatto casuale. In apparenza qui saremmo di fronte a due opposti, da una parte abbiamo il massimo di coerenza formale, l’“essere sempre all’opposizione” dall’altra parte il massimo di opportunismo, l’essere “forza di governo” al servizio di chiunque, sulla base della mancanza assoluta di principi, ma entrambi convergono nella mancanza di una qualsiasi comprensione della questione nazionale. Lo schema dominanti contro dominanti si trasforma in pura demogogia, è ora un solo dominante la causa di tutti i mali. Non è un caso invece che gli unici gruppi della sinistra ad essersi schierati risolutamente contro l’aggressione alla Libia siano stati quelli di derivazione stalinista.
Poiché la teoria con Stalin, per ragioni tutte interne allo stato sovietico subì un effettivo impoverimento con la sua trasformazione da strumento di analisi della realtà politica in ideologia di stato, finendo per assumere singolari somiglianze con la religione cattolica (“infallibilità di Marx” che voleva dire infallibilità del gruppo all’interno del partito che deteneva il potere dello Stato), questa decisiva acquisizione teorica non potè trasformarsi in una evoluzione della teoria sulla base dell’apprendimento storico. Ma erano venuti alla luce dei nodi storici, in quanto gli stessi problemi si ritrovarono nella rivoluzione cinesi e e di fatto lo stesso significato aveva la distinzione di Mao fra contraddizione principale e contraddizione secondaria.
A questa evoluzione storica si ricollega La Grassa, il quale proviene dalle file del cosiddetto “maoismo occidentale”. Allo stesso modo di Marx è il conflitto che spinge in avanti l’evoluzione e la trasformazione sociale, ma il passo in avanti compiuto da La Grassa consiste nel mettere al centro della dinamica della trasformazione delle società umane non una sola forma di conflitto, ma varie forme di conflitto, anzi il conflitto stesso pensato, a differenza di Marx, come permanente non eliminabile dalle società umane. È stato così possibile superare un capisaldo del marxismo, diventato fuorviante, secondo cui la ricerca del massimo profitto sarebbe la motivazione principale degli agenti capitalistici. Mettendo al centro il conflitto, l’azione diventa orientata principalmente dal conflitto strategico per la supremazia, il quale si serve degli strumenti materiali forniti dall’accumulazione capitalistica, ma non agisce semplicemente sulla base del massimo profitto, anzi talvolta può contraddire tale principio. È il caso, nell’ambito del conflitto nella sfera economica, di un’impresa che per un certo periodo vende al ribasso, al fine di sconfiggere le altre imprese concorrenti. Il testimone passa alla politica, anche in ambito economico, al conflitto e al gioco di alleanze al fine di ottenere la supremazia. All’elaborazione di tale concezione sono state dedicate da La Grassa varie opere, dopo una svolta che l’autore stesso fa risalire alla metà degli anni ’90. L’ultimo articolo contiene delle novità che possono considerarsi un’estensione di tale concezione del conflitto, in quanto bisogna considerare l’insieme delle forme di conflittualità e il loro intreccio. Soltanto dalla considerazione dell’interazione fra l’insieme delle forme di conflittualità è possibile stabilire se una forma di conflittualità, ad es. la conflittualità all’interno di una determinata formazione sociale ha una funzione regressiva o progressiva.
I “soggetti” in interazione conflittuale, “causata” dallo squilibrio, non sono semplicemente i gruppi sociali; e questi ultimi non sono le classi disposte in verticale (dominanti e dominati, oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati, ecc.) secondo un pensiero semplicemente, e semplicisticamente, duale. I “soggetti” sono, come sopra già segnalato, gli individui nei gruppi, i gruppi nelle formazioni particolari (paesi o aree a “struttura” considerata sufficientemente omogenea), queste ultime nell’arena globale, cioè nella formazione mondiale. Il liberalismo pensa la successione, in ordine di importanza e rilevanza dell’azione, partendo dagli individui e “risalendo” ai gruppi, alle varie formazioni particolari e infine al mondo. Il marxismo parte dai gruppi, visti appunto come due classi antagoniste fondamentali in ogni “epoca della formazione economica della società”; il che comporta fra l’altro, pur trattandosi in ogni caso di rapporti sociali (non di quantità economiche, di possibile analisi secondo mere relazioni matematiche), la preminenza assegnata sempre – la ben nota “determinazione d’ultima istanza”, mantenuta pure dagli althusseriani come generico e discutibilissimo omaggio all’ortodossia – alla sfera economico-produttiva della società.
Indispensabile è passare all’almeno tendenziale preminenza delle formazioni particolari, dove lo squilibrio (intuito da Lenin con la tesi dello sviluppo ineguale dei diversi capitalismi) non può mai essere ridotto allo schema duale, salvo che nel momento culminante del conflitto quando si formano le due “alleanze” fondamentali in scontro mondiale per la supremazia.
Il conflitto sociale assume significati diversi a seconda di come si relaziona con il conflitto tra formazioni particolari. Proprio perché è si è ispirato o questo principio il blog “Conflitti e strategie” non è caduto in quel madornale errore riguardo alle “rivoluzioni arabe” che ha condotto direttamente taluni a delle vere e proprie visioni riguardo un inesistente “popolo libico” (trattandosi al massimo di una parte del paese, la Cirenaica), che si opponeva al “dittatore” Gheddafi. Le “rivoluzioni” egiziana e tunisina sono apparse una forma di conflittualità sociale, giustificatissima se vogliamo, ma non avendo posto il problema del dominio statunitense, poiché di fatto è una questione che i “popoli”, ma sarebbe meglio dire le popolazioni, non hanno gli strumenti per affrontare, in quanto per opporsi al dominio statunitense sono necessari gli strumenti dello Stato, esse sono subito rientrate in una forma di restyling del dominio statunitense nell’area, mentre il potere restava che in Egitto saldamente nelle mani di un esercito strettamente dipendente dal potere statunitense, tuttavia, come ha chiarito La Grassa, nel caso la situazione fosse sfuggita di mano e da tale conflitto ne fossero risultati nuovi equilibri statali che avessero spinto per una maggiore indipendenza dagli Usa esso avrebbe assunto un significato diverso, progressivo.
Quindi possiamo enunciare in una forma necessariamente semplice il principio di relatività nell’ambito dell’analisi politica: ogni conflitto non può essere considerato soltanto di per sé stesso ma va considerato allo stesso tempo in relazione alle altre forme di conflitto.
Il principio di relatività è stato accolto anche dal senso comune, è diventato uso comune dire “tutto è relativo”, tuttavia relatività, non è relativismo, non vuol dire che tutto si equivale e non vi è nessun valore effettivo in politica, ma vuol dire che ogni valore è relativo al contesto. Il pacifismo è un valore negli Stati Uniti e in Israele, un disvalore in Palestina.
Proviamo quindi ad applicare più estesamente questo principio. Per quanto riguarda, il “conflitto di classe” non può essere considerato buono o cattivo di per sé ma soltanto in relazione all’insieme dei conflitti, ad es. un conflitto di classe negli Usa che rivendicasse una diversione di fondi verso le classi disagiate distogliendoli dall’“impegno statunintense nel mondo” avrebbe una funzione progressiva, mentre invece in un paese che ricerca faticosamente la propria indipendenza come l’Iran la richiesta di maggiori libertà civili da parte principalmente delle classi medie, suppure astrattamente condivisibile, favorirebbe i disegni statunitensi che mirano al rovesciamento del governo iraniano. Di fatto una indebolimento dello stato iraniano non si tradurrebbe certo in progresso civile, la via allo sviluppo deve passare per una fase di rafforzamento dello stato, al fine di raggiungere una sufficiente indipendenza, necessaria per lo sviluppo e senza lo sviluppo non vi possono essere quelle libertà civili che tutti apprezziamo. Quando negli anni settanta si parla del rapporto fra dipendenza e sottosviluppo, seppur con connotazioni economicistiche, si metteva in luce in aspetto importante perché è nella logica del rapporto di dipendenza il fatto che la potenza dominante cerchi di limitare la potenza dei paesi sottoposti limitandone lo sviluppo.
Un altro esempio riguarda il conflitto sociale per la redistribuzione del plusvalore, se questo è “sacrosanto” (La Grassa) allo stesso tempo è da considerarsi in rapporto al conflitto tra “formazioni particolari”, in quanto l’espansione economica è strettamente dipendente ai rapporti che si riescono a stabilire con le altre formazioni particolari. Soltanto un ingenuo può pensare che l’espansione si regga su motivi puramente economici, se le imprese non sono sostenute dalla forza di uno stato queste vengono facilmente schiacciate per vie extraeconomiche dalle imprese concorrenti. Per fare un esempio concreto, dalla rottura dei rapporti commerciali con la Libia, a cui vorrebbero sostituirsi i nostri “cugini” francesi nella simpatica “comunità europea” soffriranno non solo i “capitalisti” ma anche i tecnici e i semplici lavoratori che hanno perso il lavoro e le “classi popolari” sulle quali maggiormente ricadranno l’aumento del costo del petrolio e del gas.
Esemplare l’esempio del conflitto di classe in Cina riportato da La Grassa in una recente colloquio con il sottoscritto (la registrazione video sarà presto disponibile sul sito). La rivendicazione salariale dei lavoratori cinesi in linea di principio è assolutamente giusta e comprensibile, ma se tale rivendicazione dovesse pregiudicare la capacità cinese di accumulazione, non solo di profitto ma della potenza necessaria alla difesa dei rapporti commerciali stabilita in questi anni dalla Cina con vari paesi, questa si tradurrebbe in una contrazione dell’espansione commerciale e quindi in una riduzione della ricchezza da redistribuire per gli stessi lavoratori cinesi.
Tutto dipenderà dalla forme che assumerà questo conflitto, se ne risulterà una modernizzazione della società cinese, oppure lo scompiglio e la regressione. Il conflitto è il motore dell’evoluzione, ma questa evoluzione può assumere forme progressive, nel senso del miglioramento delle condizioni sociale, oppure al contrario forme regressive. Noi ci poniamo dalla parte delle forze che vanno in direzione della prima ipotesi.