Nella voluminosa opera dedicata da Domenico Losurdo alla figura di Nietzsche e denominata Nietzsche, il ribelle aristocratico c’è un interessante passaggio[1] che illustra la reazione del filosofo tedesco ottocentesco a quello che possiamo definire un’anticipazione del futuro “Stato sociale” novecentesco, effetto del tentativo bismarkiano di “integrare” nello Stato prussiano il movimento operaio.
Dalla descrizione ne evinciamo che Nietzsche è proprio un reazionario. Si permette addirittura di criticare quei “deputati e gruppi che pretendono di rappresentare i bisogni delle masse popolari”. Losurdo ha scritto il suo corposo volume appunto per dimostrare che Nietzsche è un reazionario, ma a differenza di Lukács, per il quale non si trattava che di “stracci colorati del pensiero” da relegare nei meandri dell’Irragione a cui si contrapponeva la Ragione trionfante, è un “grande” reazionario, un grande perché, a modo suo, è rappresentativo.
Losurdo si discosta da György Lukács, ma, per altri versi, ne riprende alcune intuizioni, come la concezione secondo cui, al di là dell’apparente contraddittorietà, il pensiero di Nietzsche acquisisce una sua coerenza, se visto come una lunga polemica contro il movimento socialista. A mio parere tale intuizione è giusta, però vorrei porre un quesito a Losurdo: e se talvolta Nietzsche avesse ragione contro il “movimento socialista”? Non metto in dubbio che il “socialismo” si colloca integralmente dalla parte del Bene (e del Giusto), ma se nonostante ciò avesse avuto qualche difettuccio? Oltre ad essere nel novero del possibile, una tale eventualità lo renderebbe sicuramente più umano.
Sulla base di questo dubbio iperbolico, direbbe Costanzo Preve, proviamo ad analizzare un brano che suscita una riprovazione che non ha bisogno di esprimersi a parole (basta la citazione!) da parte di Losurdo:
«Non si ha diritto né all’esistenza né al lavoro né, tanto meno, alla felicità; per il singolo uomo le cose non stanno diversamente che per l’ultimo verme» (Così parlò Zarathustra)
Orrore! Orrore! Nietzsche è contro lo “Stato sociale”! Reazionario! Reazionario!
Ma proviamo a soffermarci un po’ su questo brano. Esiste un diritto senza un potere che lo faccia rispettare? Non pare. Dunque laddove l’esistenza, il lavoro, la felicità diventano un “diritto” vuol dire che sono concesse da un potere. Che dire allora di esistenze, lavori e felicità concessi dal potere? Non è forse questo l’indice di una mentalità servile? Che dire della felicità in amore che si ha per “diritto”?. Di fatti una persona libera direbbe che la conclusione della saggezza è questa:
“merita libertà e vita solo
chi ogni giorno le deve conquistare”
(Goethe, Faust)
E allora non è possibile che Nietzsche avesse colto, nella sua critica della “mentalità del gregge” o della “rivolta degli schiavi”, un’intrinseca subalternità del movimento socialista e comunista che si manifesta (e qui andiamo oltre Nietzsche) ad es. nell’avere, fino allo stesso Lenin, in una teoria assolutamente sballata dello Stato, difetto originario del movimento socialista e comunista che viene parzialmente recuperato soltanto con l’effettiva esperienza di governo, cioè con l’Unione Sovietica e con Stalin?
Nietzsche, nonostante il suo particolare “aristocraticismo” (e Lukacs aveva ben visto che non era un nostalgico dell’Ancien Régime), viene da quella stessa classe media in ascesa, da cui escono i quadri e gli ideologi del socialismo, ma di cui una parte, successivamente, si rivolgerà al fascismo (di cui Nietzsche è precursore), un fascismo che costituisce la reazione ad un movimento, quello comunista europeo, che in realtà non offriva grandi prospettive alla classe media in ascesa. Mussolini in questo senso è assolutamente paradigmatico, per una parte della sua vita fu “socialista”, anzi fu un comunista che addirittura anticipava il comunismo leninista[2], per poi diventare fascista. La subalternità e l’incapacità del movimento socialista e comunista in Europa si dimostrò nella maniera più palese durante la repubblica di Weimar: il popolo tedesco era affamato, disperato, senza prospettive a causa dell’azione congiunta di Francia e Inghilterra e dello strangolamento da parte della finanza già allora a predominanza nord-americana, e avrebbe potuto uscire dal quella situazione soltanto attraverso gli strumenti dello Stato. I comunisti non seppero dare nessuna risposta in questo senso, mentre i “socialdemocratici” erano addirittura complici. E la risposta “nazionale” venne e fu estrema in senso opposto, fu una risposta imperialistica, fu il tentativo (impossibile per i limiti della potenza tedesca), di sostituirsi all’Inghilterra quale potenza egemone globale. Fu proprio questa risposta estrema la rovina non solo della Germania ma dell’intera Europa, poiché se si fosse limitata ad un progetto di integrazione dell’Europa avrebbe assolto ad un compito storico, mentre invece volle seguire la via imperialistica, da cui ne vennero l’aggressione all’Unione Sovietica, la teoria razziale e tutto il resto.
Ma se le reazione di Nietzsche al socialismo fu sbagliata in senso opposto, in quanto condusse a quella “metafisica della volontà di potenza”, in cui Heidegger sul finire della guerra riconobbe una delle cause della rovina della guerra[3], ciò non toglie che egli vide il problema della intrinseca subalternità del movimento socialista.
Losurdo si scandalizza per la critica del parlamentarismo da parte di Nietzsche, ma non è una critica, anche se ovviamente in termini diversi, che troviamo in Marx e Lenin? Non erano forse dei dispregiatori del “cretinismo parlamentare”? Per dirla chiaro e tondo: Lenin o Diliberto?
Il nostro ceto medio semicolto ha rappresentato i “diritti” dei lavoratori? Oppure i “diritti dei lavoratori” sono stati uno strumento per far favorire quell’orrido “ceto medio semicolto” che si è affermato pienamente dal ’68 in poi, installatosi nella politica, nello spettacolo, nel giornalismo e nella pubblica amministrazione? Non si è forse questo ceto mostrato nella sua forma più laida con il plauso da parte della Rossana Rossanda e di Dario Fo all’aggressione della Libia?
Nietzsche è un antidoto (certo, una medicina estrema che può far uscire di testa come accadde al suo ideatore) a coloro che pretendevano il “6 politico”, ai “guerriglieri” che “un concorso al ministero segna la maturità” (per dirla con i nichilistici CCCP), ai politici che trascorrono le “vacanze romane” tra prostitute e feste a base di cocaina, agli insegnanti senza nessun interesse per l’insegnamento e la materia che insegnano, a coloro che vogliono fare gli artisti senza aver talento e interesse per l’arte, ai giornalisti che scrivono falsità su falsità, ai “dirigenti” dell’amministrazione che ricevono lauti stipendi per non fare un tubo, ai professori universitari che passano la vita a scrivere cose che interessano soltanto quattro o cinque che hanno la loro ristretta specializzazione.
Sì, perché abbiamo diritto alla vita, al lavoro, alla felicità nella misura in cui abbiamo fatto il nostro dovere, e quindi non esiste diritto senza dovere. Sì ha diritto al pane, e a qualcosa in più, nella misura in cui lo si è guadagnato, in tutti gli ambiti, dal lavoro più umile a quello più elevato. I “diritti” di alcuni hanno significato il non mettere in condizioni gli altri di fare il proprio lavoro, la classe politica uscita da questo ceto medio semicolto che parlava di “diritti” ha precarizzato deliberatamente le condizioni di vita e di lavoro, ha fatto andare avanti i peggiori, portando l’Italia nelle condizioni attuali.
Note:
1. Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, 2002, pagg. 352-353: “Sprezzante è ora il giudizio sul parlamentarismo: è l’omaggio rivolto ad un «gregge» ottuso, con la «pubblica autorizzazione a poter scegliere tra cinque fondamentali opinioni politiche» (La Gaia scienza, p.174). Con un’ulteriore radicalizzazione, Al di là del bene e del male condanna «tutte le costituzioni basate sul principio di rappresentanza» cioè, in ultima analisi, sul dominio del gregge (Al di là del bene e del male, p.199). E’ interessante notare che tale condanna è pronunciata a partire dall’emergere dello Stato sociale e quindi dal peso crescente che nel Parlamento esercitano deputati e gruppi che pretendono di rappresentare i bisogni delle masse popolari: Oggi, nel tempo in cui lo Stato ha un ventre assurdamente gonfio, in tutti i campi e le specializzazioni ci sono, oltre ai lavoratori veri e propri, i «rappresentanti», per esempio oltre ai dotti i letterati, oltre alle classi popolari disagiate i buoni a nulla che chiacchierano e si vantano, che «rappresentano» quel disagio, per non parlare dei politicanti di professione, che stanno benissimo, ma si spolmonano a «rappresentare» davanti al Parlamento condizioni di miseria. La conclusione cui giunge Nietzsche è drastica: bisognerebbe assestare un «calcio» ad un sistema, ad una «vita moderna» che, a parte tutto, con il suo «gran numero di intermediari» e «rappresentanti», risulta «estremamente dispendiosa». Tutto ciò è tanto più assurdo per il fatto che l’ideale dello Stato «provvidenza» fraintende in modo radicale la natura dell’uomo, la cui molla principale non è affatto la ricerca della sicurezza e dell’appagamento materiale: Non lo stato di bisogno né la bramosia, ma l’amore della potenza è il demone degli uomini. Si dia loro tutto, salute, nutrimento, abitazione, svago ̶ essi sono e resteranno infelici e balzani; poiché il demone attende e attende e vuole essere soddisfatto (Aurora). Ad alimentare l’agitazione operaia non sono la miseria e il disagio sociale. Abbiamo piuttosto a che fare con individui malriusciti, tarati, interiormente bacati. A partire da questo momento, Nietzsche non si stanca più di insistere sul tema della malattia e della degenerazione. Gli avvenimenti sembrano dargli ragione. Leggiamo il ritratto che Mehring traccia del protagonista del primo attentato contro Guglielmo I: A 20 anni era già un rottame d’uomo, portava su di sé i lividi e le ferite che la società borghese è solita infliggere agli infelici che non sono invitati alla sua tavola. Figlio illegittimo, infettato di sifilide ereditaria, già da bambino frustato come borseggiatore e messo come vagabondo in un istituto di correzione […]. Malato di spirito e di corpo non aveva l’energia per diventare un rivoluzionario e lottava come un imbroglione e un ladruncolo contro le forze ostili che lo riducevano alla sua esistenza quasi bestiale. E’ la conferma, dal punto di vista di Nietzsche, dell’inesistenza della «questione sociale». In realtà ̶osserverà più tardi Così parlò Zarathustra ̶ «troppi uomini nascono: per i superflui fu inventato lo Stato», ovvero lo Stato sociale (Così parlò Zarathustra, Del nuovo idolo). Oltre ad essere un costoso veicolo di appiattimento e massificazione, le riforme promosse da Bismarck non riuscirebbero a conseguire il risultato da esse inseguito, di integrazione del movimento operaio nell’ordinamento esistente. E allora, dinanzi a pretese assurde, conviene ribadire un principio fondamentale: «Non si ha diritto né all’esistenza né al lavoro né, tanto meno, alla felicità; per il singolo uomo le cose non stanno diversamente che per l’ultimo verme» (XIII, p. 98).
2. La posizione di Mussolini, nel pieno della diatriba europea tra rivoluzionari e riformisti, era per conseguenza quanto mai decisa e insieme coronata, come poche, da successo. In nessun altro paese europeo, i socialisti erano così vicini alla partecipazione ufficiale (e non solo, come nella Francia dell’affare Dreyfus, non ufficialmente) al governo. A Reggio Emilia, Mussolini trionfò non, solo di Bissolati e, indirettamente, di Turati, ma anche, e soprattutto, di Giolitti. Se per comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi da quella riformistica, disposta alla collaborazione, del partito sociali- sta, Mussolini può essere a ragione definito il primo e da un certo punto di vista, l’unico comunista europeo del periodo, in quanto in tutti gli altri paesi europei la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza del bolscevismo russo, formatosi, tanto nel 1902 quanto nel 1914, nei limiti di una situazione affatto diversa. In ogni caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi del comunismo italiano postbellico (di questa paternità egli si gloriò ancora nel suo primo discorso alla Camera, in veste di deputato fascista, nel 1921): 37 egli fu anche il promotore dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta attorno a Turati, che fu forse la causa immediata della vittoria fascista. (Eric Nolte, I tre volti del fascismo, SugarCo edizioni, 1993, pagg. 268-69)
3. Vedi in merito Alain de Benoist, Heidegger, critique de Nietzsche