Ricercando le origini della formazione del ceto medio semikolto (Cmsk), cioè quel ceto di una «certa kual kultura», ricerchiamo l’origine dell’attuale spappolamento delle facoltà mentali delle popolazioni «occidentali». Nel caso in particolare parleremo di quella italiana, il cui degrado mentale è particolarmente accentuato, ma non credo molto di più rispetto alla popolazione degli altri paesi europei, per non dire di quella statunitense dove in questo momento impazza, nel verso senso della parola, lo zombismo..
E’ utile ricostruire come è sorto il concetto. Nel gruppo di discussione del blog Conflitti e Strategie durante la fase finale del governo Berlusconi si cercava di individuare le caratteristiche di quei gruppi sociali più accesamente antiberlusconiani. Paul Ginsborg, singolare figura di «storico» di origine inglese, ma allo stesso tempo organizzatore della sinistra antiberlusconiana, aveva proposto una divisione fra «ceti medi “riflessivi” impiegati “nelle professioni socialmente utili, nel terzo settore e tra gli assistenti sociali, ma anche tra gli insegnanti e gli studenti, gli impiegati direttivi e di concetto del settore pubblico, i nuovi operatori nel mondo dell’informazione e della cultura», rispetto al «ceto medio concorrenziale» impiegato nel lavoro autonomo e nella piccola impresa base sociale del partito di Berlusconi e della lega. Insomma, ceti medi «colti» contro ceti medi zoticoni. In seguito, sulla base ad una più realistica valutazione del reale livello culturale di questi ceti, Gianfranco La Grassa propose il termine «ceti medi semicolti»., cioè scolarizzati ma non propriamente colti
Proviamo ad inquadrare il campo dell’analisi in una prospettiva storica. La formazione del Cmsk va vista nella generale ascesa delle classi medie a partire dai primi decenni del secolo scorso. Luciano Gallino nella prefazione al libro di Siegfried Kracauer, Gli impiegati sottolinea la somiglianza tra le classi medie descritte da Kracauer nella Germania degli anni Trenta e quelle descritte da C. Wright Mills, I colletti bianchi. Nel passaggio dal capitalismo borghese classico egemonizzato dall’Inghilterra al capitalismo manageriale egemonizzato dagli Usa, vi è un cambiamento di struttura sociale, pur restando nell’ambito del capitalismo (i cui tratti essenziali furono descritti da Marx, innanzitutto trasformazione del lavoro in merce). Tale cambiamento della struttura sociale implica un diverso ruolo delle classi medie che si inseriscono nella gestione dell’economia, attraverso la funzione di manager, e al contempo anche nei gangli dello stato. Tuttavia non per questo le classi superiori scompaiono, ma devono effettuare un compromesso con le classi medie, e in una certa misura venire incontro alle esigenze delle classi popolari.
La II guerra mondiale fu lo scontro che consacrò la fine dell’egemonia inglese e il decisivo passaggio a questa formazione sociale. La Germania era il paese che presentava delle strutture produttive che erano maggiormente assimilabili a quelle del capitalismo manageriale statunitense, in primo luogo la presenza grandi agglomerati industriali che consentivano la produzione su grande scala, uno dei principali fattori che hanno moltiplicato la produttività del lavoro, creando lo spazio e la possibilità economica (un elevato grado di plusvalore) di un’ampia classe media.
Non possiamo sapere come sarebbe stata la società di oggi se avesse vinto il nazismo, cosa alquanto improbabile dato l’esasperato imperialismo e la visione razziale dei rapporti popoli che precludeva alla Germania la capacità di svolgere una funzione egemonica, oltre ai limiti intrinseci della potenza tedesca, a partire della collocazione e dimensione territoriale. A livello di ipotesi possiamo immaginare che la persecuzione degli ebrei, degli slavi, dei rom, degli oppositori politici sarebbe stata minimizzata, mentre la bomba atomica sarebbe diventato un crimine «unico», il più grave crimine mai compiuto dall’umanità e se ne sarebbe parlato in continuazione, vi sarebbe stati innumerevoli convegni e altre forme di commemorazione.
A dispetto della presunta estraneità della storia tedesca rispetto alle altre società «occidentali», il capitalismo manageriale statunitense e il nazismo sono due diverse forme che assume l’ascesa delle classi medie, la stessa repressione del movimento operaio ne è un aspetto comune (negli Usa non è meno violenta che in Germania), la quale viene poi sostituita, dopo il consolidamento del regime, con l’integrazione della classe operaia nel «sistema».
Vinse il capitalismo manageriale modello statunitense, non meno feroce di quello tedesco, ma più pragmatico e duttile, meno legato a fissazioni ideologiche, che attuò rapidamente la sottomissione/integrazione dei paesi europei nell’ambito del suo modello. Durante la sua fase espansiva, questo modello riesce ad esercitare egemonia nel senso gramsciano del termine, cioè consenso + coercizione. Per paesi come l’Italia significa la modernizzazione del paese, l’uscita dallo stato di paese agricolo-industriale verso uno stadio di paese industriale. Per questo motivo nella fase iniziale l’adesione al modello americano non fu puro opportunismo, ma adesione ad un modello di sviluppo, adesione ad una opzione alternativa che comunque si dimostrò più vitale rispetto al modello sovietico.
Un altro fattore importante di cui tenere conto per comprendere la formazione del Cmsk e del degrado culturale odierno è da individuare nell’attitudine del capitalismo manageriale all’irregimentazione delle attività culturali, attitudine qualitativamente diversa rispetto al capitalismo borghese classico. Poiché in quest’ultimo la cultura restava, per necessità, un’attività propria delle classi superiori, essendo le altre classi ancora destinate ad occupare l’intera giornata con il lavoro, la cultura conserva una libertà oggi sconosciuta, potendosi permettere di dire molte verità, che comunque sarebbero restate maggiormente nell’ambito delle classi superiori. Con l’enorme aumento della produttività del lavoro, con l’invenzione dei mezzi di comunicazione di massa, con l’aumento del tempo libero e una maggiore disponibilità economica da dedicare alle attività ricreative la cultura diventa affare di «massa», per cui diventa necessario il controllo da parte delle classi dominanti. I mezzi di comunicazione di massa diventano uno strumento di indottrinamento e di controllo sociale. La peculiarità della «cultura di massa» sta nel fatto che prodotti culturalmente validi sorgono contestualmente alla produzione di merce di scarso valore culturale, com’è il caso del cinema, la forma d’arte che maggiormente caratterizza il capitalismo manageriale, dove gli autentici capolavori artistici si confondono con l’autentica paccottiglia di intrattenimento, quasi sempre associata alla vera e propria propaganda.
I primi decenni del dopoguerra sono il periodo d’oro del capitalismo manageriale, è invece con il «’68» che inizia la parabola discensiva della classe media. Lungi dall’essere un momento «rivoluzionario» il «’68» è in realtà l’inizio di una fase di involuzione, sul piano culturale quanto su quello sociale ed economico, della società del capitalismo manageriale, nonostante le condivisibili quanto marginali conquiste sul piano dei diritti civili. E’ nel «’68» che prende forma la mentalità del Cmsk, anche se essa ovviamente non nasce dal nulla, ma va fa fatta risalire alla deriva universalista e pacifista del marxismo a partire da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht e all’ideologia dei «diritti umani» risalente alla rivoluzione fracese per quanto riguarda la questione dei diritti civili. L’ideologia protestataria basata su uno pseudomarxismo pseudoradicale è in realtà uno strumento per fare «ammuina» (cioè rumore, non trovo termine più adatto di quello napoletano) e rivendicare un posto al caldo nelle società ancora notevolmente ricche post boom economico. Non voglio ora ricordare i tanti che sono passati dai gruppuscoli ultramarxisti alle testate «borghesi» e alle televisioni nazionali, i santori, le annunziate, i gad lerner, i liguori, i paolo mieli, i gianni riotta.
La crisi strutturale del capitalismo manageriale inizia in quegli anni, ed è l’origine e la causa della progressiva demolizione della classe media. Negli anni ‘70 si verifica un consistente abbassamento del tasso generale di profitto, l’ascesa della classe media non trova più uno sbocco nella struttura produttiva o nell’ambito della gestione del potere politico effettivo, per questo motivo il «sistema» è costretto a creare una sorta di pseudomobilità sociale nell’ambito dei mass media, in ambito accademico, o in ambito politico o nella pubblica amministrazione. In questo processo la «classe politica» (intesa come gruppo sociale con dinamiche proprie) viene staccata dal resto dei gruppi sociali per farla diventare uno strumento del «ritorno dei proprietari» (L. Gallino, L’impresa irresponsabile). La «classe politica» parlamentare e partitica, i cui membri provengono dalle classi medie e talvolta anche inferiori, cessa di essere fattore di miglioramento sociale delle classi medie e in una certa misura anche di quelle delle classi inferiori, e comincia a diventare puro strumento dei voleri delle classi alte. Si crea il blocco sociale che chiamiamo Cmsk, cioè classe politica, pubblico impiego in eccesso, giornalismo, spettacolo (tv, cinema, musica, teatro), accademia (soprattutto l’università, ad es. Costanzo Preve afferma ironicamente che uno dei maggior risultati del «’68» è stato il quintuplicarsi delle cattadre universitarie, non di rado attraverso la creazione di «insegnamenti» praticamente inutili). Tale blocco sociale si autoidentifica come la «parte colta del paese», titolo di cui i suoi rappresentanti amano fregiarsi. Ma la «cultura» in questo caso serve soltanto come bandiera di distinzione sociale, ciò che fa la differenza, ciò che lo distingue rispetto ad altri ceti. Ad es. i giovani che durante il governo Berlusconi manifestavano in piazza facendosi scudo dei libri erano perfetti aspiranti Cmsk
Questa pseudomobilità implica un forte disprezzo verso il mondo del lavoro e della produzione. La sorte del comune lavoratore è vista con orrore dai rampolli del Cmsk, i cui ultimi rappresentati, incapaci di trovare una collocazione per la crisi di accumulazione restringe i margini per mantenere vasti settori improduttivi di plusvalore (nel senso marxiano del termine), preferiscono il disadattamento sociale piuttosto che svolgere lavori «comuni». La stessa immigrazione degli ultimi decenni, causata non dall’«immigrazione clandestina», ma da un’effettiva richiesta di lavoro, si deve allo spazio creatosi in basso nei «lavori che gli italiani non vogliono fare» e implicito razzismo/classimo di questa divisione, il quale però si mostra nella forma di «antirazzismo» che è in realtà, come già ho osservato in altre occasioni, autentico razzismo, seppur nella forma del razzismo al contrario, che esalta il “diverso” invece di denigrarlo, pur restando “diverso”.
Un’intera generazione che ha perso il contatto con la realtà, è questa l’eredità del disfacimento della classe media in ascesa, della sua degenerazione che chiamiamo Cmsk, un processo che ormai dura da vari decenni, precisamente dal «’68», e che si manifesta in vari modi, nell’abuso di alcool, droghe, psicofarmaci, e in varie altre forme di droghe spirituali. Ma la forma più odiosa in cui si presenta questa deriva è nella sua forma pseudo-culturale «di sinistra», del politicamente corretto, della vacua presunzione di «cultura» rispetto agli «incolti», pretesa del tutto ingiustificata rispetto alla reale vuotaggine e incapacità di comprendere i problemi del proprio tempo, unita all’incapacità politica.
In sintesi le cause del degrado culturale sono un elevato livello di irregimentazione delle attività culturali nell’ambito del giornalismo, del mondo dello spettacolo e del mondo accademico e la perdita di funzione della classe media che sarebbe la classe deputata a queste attività.
Con il commissariamento dell’attuale classe politica, da cui è sortito il «governo» Monti, è venuta alla luce la completa bancarotta di questa classe politica, la sua incapacità politica e la sua subordinazione alle classi superiori, più precisamente alla grande finanza e industria decotta (G. La Grassa), la quale è sua volta strettamente subordinata agli Stati Uniti. Quindi la radice ultimadella deriva del paese è il degrado delle classi superiori, il loro carattere decisamente antinazionale (2)
L’odio che il Cmsk è così bravo a suscitare non deve far disprezzare la cultura o la politica in sé, la cultura è indispensabile, così come sono indispensabili la formazione di una classe politica, una buona amministrazione statale, un buon sistema scolastico e universitario. Senza una classe politica fornita dei necessari strumenti culturali un paese è allo sbando.
Tutto lascia pensare che siamo soltanto all’inizio di un periodo di guerre e di sconvolgimenti sociali. In tali condizioni il disastro è assicurato perché necessario, perché soltanto in questo modo per il paese è ormai possibile riprendere il contatto con la realtà.
Saprà la nuova generazione risalire la china dopo il disastro? Non è possibile prevedere il futuro, ma la rinascita passa con la completa rottura con la «cultura di sinistra», in particolare quella che si è sviluppata dal «’68» in poi, per la ricostruzione di una cultura autentica.
(1) Paul Ginsborg, La scomparsa del ceto medio, (La Repubblica, 16 ottobre 2010, disponibile in internet)
(2) G. La Grassa, Capitalismo italiano, capitalismo antinazionale (disponibile in internet).