Il libro in oggetto è una riflessione “metapolitica” sulla geo-politica, ovvero va oltre le questioni specifiche di cui tale disciplina si occupa per interrogarsi sui “perché”, sulle questioni di fondo da cui poi derivano le questioni tanto geo-politiche che politiche tout court. Perché occuparsi di geo-politica? Dal punto di vista immediato, ogni Stato, non può ignorare le questioni geo-politiche pena gravi conseguenze. Un certo livello di conoscenze geopolitiche, ovvero dei rapporti tra gli Stati, è necessario alla classe politica di ogni Stato. Tuttavia, non ogni Stato ne ha bisogno e ne può fare uso allo stesso modo, dipende dalla capacità di azione, la quale a sua volta dipende dalla potenza di uno Stato. Uno Stato totalmente subordinato alle politiche internazionali di un altro Stato, e ne esistono, dovremmo ben saperlo, ha poco bisogno di conoscenza geo-politica poiché la decisione in merito alle politiche inter-nazionali saranno dettate da altri. Ma questo poco non vuol dire zero, un certo grado di conoscenze geo-politiche è sempre necessario, un margine di manovra resta sempre, anche se è diventato molto più ristretto rispetto alla “sovranità limitata” goduta dall’Italia dal dopoguerra fino al crollo dell’Urss. Ma se è questo è il livello immediato da cui nasce l’esigenza di conoscenza geo-politica non ci si può fermare ad essa, altrimenti avremmo una geo-politica puramente nazionalistica. Non è il caso di Fabio Falchi per il quale la geo-politica nasce dal nostro “essere al mondo” e riguardo un determinato modo “abitare la terra”. In quanto mortali abitiamo “poeticamente” la terra, essendo la parola la “casa dell’essere” e riguarda quindi il nostro essere a casa nel mondo, ma noi siamo esseri situati tra il cielo e la terra, quindi il poetico presuppone l’impoetico, tanto quanto l’uomo abita poeticamente la terra, tanto esso la abita geo-politicamente. Questo poetico vs impoetico è tradotto filosoficamente nell’opposizione Heidegger vs. Schmitt (capitolo II), con Schmitt che viene a ricordarci che l’abitare la terra dell’uomo avviene a partire da un spartizione, e di essa si occupa la geo-politica, ma questo vuol dire attribuire prevalenza all’esser contro gli altri. Giocando dialetticamente Heidegger contro Schmitt e viceversa, però viene ristabilita la priorità “ontologica” all’esser con gli altri (p.52), pur riconoscendo all’essere contro una possibilità sempre presente nei rapporti umani.
Di Schmitt, pur respingendo con Heidegger l’opposizione amico-nemico quale opposizione ultima, ontologica, fondativa della politica, Fabio Falchi vuol recuperare l’opposizione terra-mare. Invece, ritengo che questo sia un mito ritagliato sul conflitto Germania-Inghilterra, la storia non è segnata da questa eterna opposizione tra potenze terranea e acquatiche (a quest’ultime si aggiungono, con la tecnica moderna, le potenze che fanno affidamento sul controllo dei cieli), questa opposizione è difficilmente applicabile alla storia antica, come riconosce anche Falchi, e anche con la “rivoluzione spaziale” avutasi con la scoperta delle Americhe e la navigazione dell’intero globo, essa non diventa maggiormente valida. Il problema è piuttosto superare il globalismo, il sogno del dominio globale, sorto dall’espansione globale delle potenze europee. La Germania del secolo scorso fu certo una potenza che contava maggiormente sulle forze terrestri, tuttavia ereditò il sogno del dominio globale anglosassone, che volle infine realizzare “via terra” attraverso l’invasione della Russia, per la quale si ispirava alla “conquista del West”.
Dunque se è giusto ristabilire il fondamento universalistico della comune appartenenza umana, pur riconoscendo che proprio l’essere insieme può risolversi nell’essere contro, ovvero la possibilità sempre presente del conflitto, come fare prevalere la comune appartenenza, rispetto alla tendenza ugualmente connaturata al conflitto? Il che tradotto in termini geopolitici universali oggi per me vuol dire: come evitare lo scontro di civiltà? A tal fine, tra le altre cose, fondamentale è ristabilire il senso del limite umano rispetto all’illimitata volontà di potenza che ha dato vita alla Tecnica. E in merito Heidegger è tanto di aiuto, essendo tra coloro che maggiormente hanno messo a fuoco il problema, tanto fuorviante poiché la differenza ontologica e l’oblio dell’essere sono a mio parere risposte sbagliate. Di Heidegger maggiormente da superare è proprio il concetto di differenza ontologica, esso crea una frattura tra essere ed ente, riproducendo i vecchi dualismi. Identificare l’essere con tutto ciò che non è ente vuol dire una de-sostanziazione dell’Essere, il quale è invece quanto vi è di più reale, è ens realissimus. Pensato attraverso la differenza ontologica l’essere è il non ente, il ni-ente. Identità quindi di essere e nulla. E qui ritorniamo al famoso avvio della Scienza della logica, da cui pur si dirama la riflessione di Heidegger. Ci sarebbe da fare un discorso sulla natura problematica della dialettica hegeliana che non possiamo fare in questa sede, su cui Enrico Berti ha scritto pagine fondamentali. Certo l’essere non può essere ridotto ad un ente determinato, ma è cio che facciamo nella misura in cui parliamo del-l’essere con l’articolo determinativo. L’Essere non può essere obliato poiché in quanto esseri umani limitati non lo possiamo abbracciare, ciò che invece non possiamo obliare è che la nostra conoscenza della natura, e la nostra capacità di conoscere e controllare determinati fenomeni naturali, è sempre piccola cosa rispetto alla potenza infinita della Natura che ci ha generati. L’essere è il mondo infinito che ha generato anche l’uomo, esso non può essere abbracciato da un essere finito qual è l’essere umano, ma solo pensato come un oltre. Noi ci approcciamo all’essere solo attraverso l’ente in modo finito e determinato, ma questa è sempre una riduzione, poiché, e questa è una delle più importanti acquisizione della scienza moderna, anche il granello di sabbia ha infinite determinazioni se lo si analizza in profondità. Riflettere sull’essere vuol dire riflettere sui limiti della conoscenza umana, ma anche sul carattere meraviglioso di tale conoscenza. Cosa sarebbe un mondo che non presentasse per l’uomo più sfide e misteri? Fabio Falchi conclude ottimamente il suo lavoro ricordando che ristabilire il senso della meraviglia verso la Physis è fondamentale nei confronti di un Apparato tecnocratico che vorrebbe ridurre il mondo a qualcosa di interamente manipolabile e controllabile. Una “domanda metafisica” che il pensiero debole di un Vattimo vorrebbe invece cancellare, mostrando una convergenza di fondo con il pensiero neo-liberale a cui dice di volersi opporre. Tra l’altro, Cacciari coglie un punto cruciale quando ricorda il doppio significato del termine greco Thauma, che denotava un rapporto al mondo in cui il terrore e la meraviglia hanno la stessa origine. Mentre invece Heidegger (e lo stesso Severino) hanno privilegiato il solo aspetto dell’angoscia connaturata alla finitezza dell’essere umano, ineliminabile, ma è proprio questa che può essere trasformata in meraviglia verso il mondo, che trasforma il breve viaggio della vita in qualcosa che ha senso e valore.
Tuttavia se è necessario ristabilire l’idea dell’inevitabile subordinazione dell’essere umano alla Natura, non possiamo ristabilire il “senso del sacro” degli antichi, che derivava dal senso naturale, per così dire, di subordinazione dell’essere umano alla natura. L’essere umano si è liberato dalla dipendenza verso determinati fenomeni naturali, ed è stato complessivamente un percorso positivo e anche obbligato visto che l’“animale nudo” chiamato uomo, che non possiede artigli per difendersi o arti veloci per correre, doveva per forza sviluppare la tecnica. Questo percorso però è esitato nel dominio della Tecnica che è una forma di hybris, l’illusione di poter controllare e manipolare a piacimento il mondo. Dato questo percorso il senso della subordinazione dell’essere umano alla Natura deve essere ricostituito su nuove basi.
Fondare un giusto rapporto con la trascendenza della Natura, con l’Essere, con Dio, o come si voglia designare il mondo infinito che ci ha generati è fondamentale anche per la geo-politica. Poiché fondare un giusto rapporto con la trascendenza vuol dire ristabilire per l’essere umano il senso del limite. E questo tradotto in termini geo-politici vuol dire un’inversione di rotta rispetto all’insensatezza del progetto di controllo totale dell’essere umano sulla Terra nato in Occidente. Ci sono dei limiti da non oltrepassare, e queste dovrebbero essere le nuove colonne d’Ercole di domani, che non sono più geografiche ma politiche. Un limite da non oltrepassare oltre il quale si rischia di innescare il conflitto di civiltà, il quale potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Da ricordare la straordinaria attualità del canto XXVI di Dante che inizia con la condanna dell’imperialismo di Firenze che “per mare e per terra batte l’ale”, il suo desiderio di espansione senza limiti. Nell’ineliminabilità della dimensione conflittuale, che costituisce una dimensione ineliminabile dell’abitare la terra, come giustamente sottolinea Falchi, a mio parere si rivela la subordinazione dell’essere umano alla natura. Che è poi la stessa conclusione a cui giunse Tolstoj quando volle narrare di “guerra e pace”. Ciò non vuol dire che il conflitto è inevitabile, vuol dire che il conflitto va “messo in forma” (per usare la terminologia del Nostro), va governato e indirizzato verso forme non distruttive per tutti i contendenti.
Ritengo quello di Fabio Falchi un meritorio lavoro di riflessione e abbastanza raro nell’asfittico panorama intellettuale italiano, per profondità e larghezza di vedute, sui fondamenti della (geo)politica, tuttavia andrebbe fatto uno sforzo per superare quel blocco della cultura europea, di cui parla Pierluigi Fagan, secondo cui “la filosofia pratica occidentale, la sua politica e la sua etica sono ferme al XIX secolo”. In effetti ci rigiriamo tra Heidegger, Nietzsche e Marx, spesso in un miscuglio di questi. La filosofia italiana del dopoguerra ha fatto dei passi avanti che andrebbero valorizzati rispetto alla filosofia tedesca, penso alla critica severiniana di Heidegger, ma anche alla critica della dialettica da parte di Enrico Berti. Heidegger è stato “sacralizzato” da una certa intellettualità europea, soprattutto di sinistra, come scrive Dominique Janicaud in Heidegger en France perché “la distruzione della metafisica” corrispondeva al bisogno di liberarsi delle “narrazioni” progressiste, operazione certo necessaria ma che poi ha portato aall’adesione nichilistica ai valori di fondo del neo-liberalismo, anche se poi condita da un innocuo anarchismo, come osserva Fabio Falchi a proposito di Vattimo. Non conosco sufficientemente la filosofia di Vattimo, per cui posso esprimere soltanto un giudizio consapevolmente sommario, ma posso dire che a una prima lettura il “nichilismo liberatorio” di Vattimo non mi convince affatto. Non credo che “è vero ciò che rende liberi”, puttosto credo che la comunità non possa fondarsi se non su una base di verità. La verità non è l’imposizione del discorso dominante. È una formulazione che non sfugge alla classica obiezione al relativismo, visto che anche questa vorrebbe essere una verità. Heidegger andrebbe “superato”, secondo l’accezione hegeliana del termine, altrimenti la nostra critica nei confronti dei suoi allievi “sinistri” è necessariamente debole. Il concetto di verità di Vattimo va respinto.
Il problema è che tale debolezza nei confronti di certo nichilismo nasce da un problema preciso che è un vuoto non facilmente superabile. Heidegger pensò ed agì nell’ottica della difesa della civiltà europea, per la quale pensò di utilizzare quel nichilismo prodotto dalla decadenza di quella stessa civiltà, un cortocircuito che lo portò all’adesione a quel nazismo che funzionò da acceleratore della decadenza europea. Per noi invece quel crollo è già un fatto compiuto, in effetti non resta più niente da difendere, solo le macerie. Sebbene, tale questione non è menzionata nel libro, so bene, conoscendo un po’ il pensiero dell’autore che questo problema fa da sfondo. Non lo si menziona perché non è problema risolvibile, ma resta un problema accantonato non superato. La “radice terrenea” non può che essere nella propria cultura di appartenenza. La nostra cultura di appartenenza avrebbe dovuto essere quella civiltà europea all’interno della quale si inscrive il singolo Stato nazionale. Tuttavia essa crollò con la I e II guerra mondiale, lasciandoci in uno strano ibrido che è la “civiltà occidentale”, un non-luogo destinato a dissolversi. Ma se non possiamo ragionare nell’ottica dell’appartenenza alla civiltà europea, anche se questo appartenenza non esaurirebbe né sarebbe l’orizzonte ultimo del nostro “essere al mondo”, possiamo pensare nell’ottica di una rinascita, nella convinzione di una rinascita, poiché la civiltà è ciò che sempre rinasce dai semi lasciati dalla precedente. Anche se tale rinascita non vuol dire che la civiltà europea rinascerà tale a quale alla precedente. Mi rendo conto che è una soluzione ideale del problema, l’appartenenza a una civiltà reale è un’altra cosa, ma non credo che si possa fare di meglio in questo momento. Per cui ritengo fondato l’approccio prevalentemente universalistico del libro, non possiamo che occuparci di “problemi universali” sapendo che restano scollegati dall’ancoramento ad una civiltà reale. Quell’universalismo in cui già altre volte ha dovuto confinarsi l’intellettualità italiana, come già notava Gramsci. Ma conservare la prospettiva della rinascita credo ci consenta di guardare in prospettiva ai problemi nazionali avendo una direzione, nella collazione di un potenziale futuro grande spazio europeo che sia soggetto e non solo oggetto della politica degli altri “grandi spazi” attualmente esistenti sulla Terra.