“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente…”
Per quale motivo Dante colloca l’invettiva contro Firenze all’inizio del Canto XXVI dell’Inferno, qual è il suo rapporto con la parte dedicata ad Ulisse? Considerata l’attenzione di Dante per questi particolari, pensiamo solo alla teoria politica dei due soli posta esattamente al centro della Commedia (Pur. XVI), non può essere casuale che la più dura invettiva contro Firenze sia collocata all’inizio del «canto di Ulisse». Partiremo con questo interrogativo, che mi è servito da orientamento nella labirintica creazione dantesca in cui, tra le figure memorabili della Commedia, si staglia quella di Ulisse, cercando di capire meglio il significato dell’invettiva:
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Com’è noto, i versi richiamano la targa del Palazzo del Capitano del Popolo (Bargello), fatto costruire nel 1255 dal «Governo del primo popolo», in seguito alla sconfitta dei cavalieri ghibelllini. Un passo dell’iscrizione ricalcava quasi alla lettera i versi della Pharsalia di Lucano riguardanti la potenza romana: «que mare, que terras, que totum possidet orbem».
Dante, appartenente all’Arte dei medici e degli speziali (fra le Arti maggiori) fu uno dei sei priori, la massima carica nel governo detto del Secondo popolo di Giano della Bella, che istituì gli Ordinamenti di giustizia che escludevano dal governo della città i “magnati” appartenenti alle grandi famiglie. Gli anni che vanno dal Governo del primo popolo fino alla fine del secolo furono di grandi trasformazioni, videro il rapido ingrandimento della città e il sorgere di una proto-borghesia composta soprattutto da grandi mercanti e imprenditori appartenenti alle Arti maggiori, e artigiani appartenenti alle Arti minori, la «gente nova» dai «subiti guadagni».
Firenze era diventata una delle più potenti città europee, se non la più popolosa (seconda solo a Parigi), sicuramente la più «dinamica» sul piano economico, come si direbbe oggi. Il «maladetto fiore» stava per diventare in quegli anni la moneta dominante nell’Europa del tempo. Scriveva Francesco Buti, commentatore della Commedia del 1300: «erano allora i Fiorentini sparti molto fuor di Fiorenza per diverse parti del mondo, ed erano in mare e in terra, di che forse li fiorentini se ne gloriavano». Forse ispirata da Brunetto Latini, il maestro di Dante (che ritroverà nell’Inferno), la targa esternava la volontà di potenza dei fiorentini.
Secondo Elisa Brilli, Dante in prima persona, quale voce narrante e non personaggio della Commedia «parodiando la retorica romaneggiante dell’iscrizione ufficiale, attacca non la Firenze contemporanea o del recente passato, bensì quella del Primo Popolo e le sue velleità imperialiste, qui capovolte nell’impero ernale» 1. Il lavoro della Brilli su Dante e Firenze è di grande interesse, però a me pare un’eccessiva sottigliezza circoscrivere il sarcasmo dell’invettiva alla Firenze del Primo Popolo, esso è diretto alla nuova Firenze nel suo complesso sorta nella seconda metà del XIII secolo. Lo spirito dell’iscrizione del Bargello è risibile poiché Firenze si atteggiava a nuova Roma, perché aveva affari dappertutto, ma nella corruzione che manifestava, nella brama di ricchezza, nella cupidigia che la muoveva per il mondo, non era possibile riscontrare nessuna manifestazione della virtù romana.
Dante verrà poi esiliato da Firenze dopo la sconfitta dei guelfi bianchi, a cui apparteneva, da parte dei guelfi neri, in seguito alle trame di Bonifacio VIII che portarono all’ingresso in Firenze delle truppe di Carlo di Valois. Probabilmente in gioventù avrà guardato con altri occhi alla targa del Bargello, nel Convivio scriveva: «Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno» (Convivio, I, 3). La nota amaramente ironica di queste parole nell’invettiva si trasformava in sarcasmo già di per sé esaustivo riguardo al paragonarsi di Firenze a Roma, che diventerà piuttosto un’anti-Roma. Dante rovescerà il giudizio di Agostino su Roma, la cui «sementa santa», (Inferno XV, 76) sembrava del tutto scomparsa a Firenze che infine diventerà l’agostiniana civitas diaboli, la mala pianta di Lucifero (Paradiso, IX, 129).
Nella contrapposizione tra Roma e Firenze vi è una premonizione della differenza tra l’imperialismo che poi sarà proprio di tutte le nazioni europee e la civiltà romana, che, come tutte le civiltà che nella storia hanno acquisito una forma stabile, non si muove disordinatamente, non sbatte di qua e di là le ali per il mondo al fine di accrescere la propria ricchezza, identificandola illusoriamente con la potenza, ma si muove, come l’Aquila imperiale, in modo rettilineo, acquisendo contiguamente e sussumendo nel proprio sistema i territori conquistati. L’espansionismo fiorentino è spinto invece dalla cupidigia di ricchezze (capitalismo), una definizione che precorre quella marxista di imperialismo.
L’invettiva profetizza la fine di Firenze:
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
Pur non avendo trovato nessun commento che lo rilevi, a me pare proprio che Dante nel profetizzare la distruzione di Firenze da parte delle città vicine, se non dalla stessa Prato, abbia in mente quel passo di Tito Livio secondo cui Roma crebbe sulla distruzione di Alba2. È da Livio che è tratta (Purgatorio, VI) la descrizione del passaggio dell’Aquila da Alba, dove aveva dimorato per trecento anni, a Roma. Corsi e ricorsi storici. Come avvenne tra le due antiche città, Firenze sarà distrutta da una delle città vicine, che alla prima occasione metterà fine al suo «volo», già dimostratosi privo del favore della Provvidenza. Con la venuta di Arrigo VII e il ritorno dell’ordine imperiale, Prato, che aveva già dimostrato la sua insofferenza verso Firenze con la cacciata dei neri nell’Aprile del 1309, potrebbe prendersi la sua rivincita. Avendo ciò presente, tale profezia, ancor oggi considerata in parte oscura3, acquisirebbe un significato più preciso, comunque nel senso intelligibile della stessa se ne deduce che Firenze sarà portata alla rovina dalle città vicine, se non dalla piccola Prato, da qualche altra città più grande. Firenze non è Roma. In analogia, con quanto era avvenuto tra Alba e Roma, Firenze, patria di ladroni, ormai con-dannata, andrà incontro alla sua fine. Se la Provvidenza vuole che ciò accada che accada presto. Così la storia potrà indirizzarsi su un cammino più virtuoso, come avvenne con Roma. Arrigo VII morì invece nel 1313 durante la sua discesa in Italia prima di attaccare Firenze e senza riportare «l’ordine imperiale».
L’Aquila, che per lungo tempo si posò su Roma, si muove secondo un disegno provvidenziale, magari non intellegibile a tutti ma presente (Paradiso, VI), il volatile fiorentino spinto dalla cupidigia di ricchezze svolazza disordinatamente per il mondo, per mare e per terra, assomiglia al «folle volo» di Ulisse.
Com’è noto, l’Ulisse dantesco con l’Ulisse omerico non ha un rapporto diretto. Dante non conosceva l’Odissea, le sue fonti sono quelle classiche romane e latine, in primo luogo Virgilio, nonché Cicerone, Orazio, Ovidio, Agostino, Orosio. Ulisse si trova condannato nell’Inferno nel girone dei consiglieri fraudolenti in qualità di «scelerum inventor» e «fandi fictor» , inventore di scelleratezze e dai falsi discorsi, per il celebre inganno del cavallo di Troia, e per il furto della statua di Pallade protrettrice di Troia (Virgilio, Eneide), per l’inganno ai danni di Deidamia (in questo caso la fonte è l’Achilleide di Stazio) che ancora si duole nel Limbo per Achille.
Si ispirò invece alla letteratura medievale su Alessandro Magno nella parte in cui Ulisse narra di se stesso e delle vicende dopo la sconfitta di Troia e la dipartita da Circe che lo portarono a peregrinare per il mediterraneo, fino alla vicenda conclusiva. Nessuno crea nulla dal nulla, queste vesti classiche hanno un loro significato, come vedremo, ma Ulisse è una creazione dantesca ed è una figura che sentiamo come la più moderna dell’intero poema, anzi taluni ci vedono un archetipo dell’uomo moderno.
L’Ulisse di Dante è stato interpretato nel corso dei secoli in molteplici e opposti modi. Nel dopoguerra la «letteratura dantesca», con la crescita delle università, ha raggiunto dimensioni vertiginose. Impossibile tener conto dell’insieme di essa, mi sono limitato quindi ai testi con cui ho ritenuto aver raggiunto un’immagine coerente del personaggio dantesco, seguendo delle mie tracce di lettura. Credo scherzi fino ad un certo punto il «filologo complottista» Francesco Benozzo quando fissa4 un limite al 5 per mille degli interi scritti su Dante che un singolo individuo può arrivare a consultare. Preciso che quanto segue non è un lavoro di carattere filologico, ma estetico-filosofico. Non voglio proclamare l’inutilità della filologia, che mi è stata di molto aiuto nel tentativo di avvicinarmi al personaggio dantesco, né credo che ciò intenda Benozzi da filologo, tuttavia non si può non rilevare, che tutta questa «letteratura» pur essendo sovente utile per questioni specifiche, lascia nel complesso insoddisfatti, essendo davvero pochi coloro, almeno nel «campione» da me consultato, che non si occupino solo di «pezzi di Dante», che non trattino solo della questione specifica, ed è difficile quindi non pensare che la «critica dantesca» sia una sorta di vivisezione, per dirla con Benozzo, oppure la dissezione di un cadavere. Pare che Dante abbia oggi poco da dirci, e che, ora, il suo cadavere intellettuale sia pertinenza esclusiva degli «specialisti», oppure possa essere oggetto solo di vuote e stanche celebrazioni.
Cominciamo da Ulisse quale navigatore. Francesco De Sanctis intravvedeva in Ulisse il moderno navigatore, una premonizione dei viaggi che di lì a qualche secolo avrebbero cambiato radicalmente la conoscenza e il rapporto che abbiamo con la Terra. A tale intuizione Bruno Nardi aggiunse la notizia dei fratelli Vivaldi, salpati da Genova nel maggio del 1291 con l’intenzione di raggiungere le Indie via mare, poi scomparsi in luogo ignoto delle coste africane. Recentemente la tesi è stata ripresa e sviluppata da Sergio Cristaldi: «Se ha convocato l’eroe greco è anche per affrontare, in maniera trasposta, un enigma recente e fosco; a costo di manipolare il mito, di avvicinarlo il più possibile alla propria moderna condizione, alle ambizioni e alle sconfitte che la segnavano»5 . L’enigma è quello della morte dei fratelli Vivaldi. Come scrive Cristaldi, è molto probabile che Dante conoscesse la vicenda dei due fratelli che aveva suscitato clamore tanto a Genova, e che doveva aver fatto notizia anche a Firenze, che allora mirava ad un’alleanza con Genova, in opposizione a Pisa, concorrendo a creare nella mente dantesca la figura, in modo più o meno consapevole, non lo possiamo sapere, è probabile, visto l’interrogativo sulla morte di Ulisse, che potrebbe rispecchiare un analogo interrogativo diffuso allora tra Genova e Firenze.
Ulisse quale simbolico precursore delle grandi navigazioni, già iniziate in quegli anni è lettura suggestiva, ma diventa riduttiva se volesse esaurire la poliedrica figura. Infatti, «perché Ulisse e non direttamente i fratelli Vivaldi? Le risposte a disposizione indicano la convenienza dell’aggancio a un personaggio fittizio semanticamente denso, già implicato in una serie di opposizioni esemplari – Ulisse-Enea, greco-troiano, folle-savio, callidus-pius –, e rilevano ancora la disponibilità di un simile profilo a ricevere significati ulteriori, legati all’attualità di Dante»6. Queste «significazioni ulteriori» non possono essere tralasciate, se vogliamo avvicinarci al personaggio dantesco.
Di grande interesse la ricerca di D’Arco Silvio Avalle, il quale rimanda alla letteratura medievale intorno alla figura di Alessandro Magno, per quanto riguarda l’oltrepassamento delle Colonne d’Ercole e morte di Ulisse (ciò che differenzia il personaggio dantesco dall’Ulisse omerico), adducendo numerosi riscontri tra il testo dantesco e i testi letterari medievali7, in particolare con l’Alessandreide di Gualtiero di Châtillon e El libro de Alexandre, quest’ultimo, secondo Avalle, quasi sicuramente non conosciuto da Dante, ma rispetto al quale vi sono sorprendenti coincidenze verbali. Oltre alla ripresa l’antico topos narrativo del superamento delle Colonne D’Ercole, vi sono altre rilevanti analogie nella descrizione della dismisura di Alessandro, che come vedremo, è intrinseca al personaggio dantesco. Al di là degli aspetti filologico-letterari, indubbiamente interessanti, il lato alessandrino di Ulisse, per così dire, ha significato ulteriore se collocato nella teologia della storia dantesca, se riferito a quel passo della Monarchia in cui si afferma la non provvidenzialità del tentativo alessandrino di conquistare il mondo che aveva dovuto cedere il passo ai romani. Non solo i viaggi marittimi, e in generale la rinascita e l’espansione dei commerci nel Mediterraneo, stavano avendo un profondo impatto sulla cultura cristiana medievale. Non è da sottovalutare l’impatto sul piano culturale della riscoperta della cultura greca. Per questo, la grecità di Ulisse ha un suo significato.
Ulisse modernissimo precursore dei viaggi marittimi oppure Ulisse sosia di Alessandro Magno? Già l’eroe omerico è politropo, e in diversi e contrastanti modi l’avevano interpretato Virgilio, Orazio, Cicerone, Stazio. Dai classici Dante avrà tratto l’abilità ingannatrice di Ulisse nell’assumere diversi volti, intanto è da sottolineare la compresenza in esso di nuovo e antico.
Se per Orazio Ulisse è «simbolo di ciò che possono virtù e saggezza»8, più articolato è il giudizio di Cicerone9: dell’ardore di conoscenza, dote naturale dell’essere umano, fu espressione Ulisse, ma in lui tale passione fu superiore all’amore per la patria, per cui il desiderio di conoscere ogni cosa, e non ciò che davvero conta, diventava mera curiositas. Giorgio Padoan nel suo saggio Il saggio Enea e l’empio Ulisse osserva che per la contrapposizione fra Enea e Ulisse nel complesso la cultura romana considerava negativamente l’eroe greco, e parimenti Dante riprende nel Canto tale contrapposizione: il viaggio del primo si conclude nella fondazione di una patria, il secondo nel naufragio. Padoan, ritrova nell’Achilleide di Stazio maggiormente che nell’Eneide, la descrizione delle capacità retoriche, l’abilità ingannatrice attraverso il discorso di Ulisse: «Anche questa volta, come sempre, Ulisse ha detto le verità più sacrosante e solenni per indurre ad un’azione non giusta»10. Però in questo caso Ulisse, oltre a ingannare i compagni, avrebbe ingannato se stesso, quindi in qualche modo sarebbe un inganno non consapevole, quindi non un vero e proprio inganno. Ma non v’è dubbio sulla condanna di Dante, nonostante che la «lettura prometeica» abbia voluto rovesciare il giudizio dantesco. Il prometeismo di De Sanctis e Croce, in Bruno Nardi, il più grande studioso di Dante, diventava decadentismo luciferino, a detta del suo avversario teorico Mario Fubini, con allusione alle convinzioni filosofiche-politiche di Nardi. Fubini era pur tra coloro che intendevano assolvere Ulisse, ma più pacatamente, «senza porlo in contrasto con l’orizzonte etico-religioso della Commedia»11. Costanzo Preve con le parole di Bobby Solo sunteggiava un certo heideggerismo quale ideologia della depressione europea, oggi che «non c’è più niente da fare, è stato bello sognare», non c’è più spazio per gli slanci prometeici dopo la fine della centralità europea, dopo guerre mondiali, bombe atomiche, crollo della «fede nel progresso», fallimento delle principali ideologie. Del prometeismo otto-noventesco è rimasta solo l’immagine generica e senza precisi contorni di un «Ulisse eroe della scienza», diventata quasi luogo comune, che è esattamente il contrario di quanto voleva dirci Dante con il suo Ulisse.
Certo, la lettura prometeica faceva violenza al personaggio dantesco, ma Dante gli aveva pur messo in bocca le sue più profonde convinzioni. Essa ha avuto se non altro il merito di promuovere una lettura più complessa rispetto all’attestazione della pura e semplice condanna da parte di Dante (come per altri personaggi, ad es. De Sanctis si interessò maggiormente a Francesca). Lo stesso Padoan riconosce che si tratta di uno dei personaggi «particolari» dell’Inferno, ovvero quei personaggi come Francesca o Farinata verso i quali Dante mostra un’affezione particolare, nonostante la condanna.
Per quanto riguarda Ulisse quale incarnazione della curiositas, che da Cicerone passava per la squalifica cristiana della conoscenza meramente terrena, essa è pur presente nel Canto come indicato dalla forte curiosità espressa da Dante personaggio della Commedia nel voler sapere di Ulisse. Tuttavia è piuttosto riduttivo liquidare Ulisse quale incarnazione della sola curiositas, exemplum negativo rispetto a chi come Enea aveva in mente solo Dio, Patria, Famiglia. Dante condanna la curiositas quando è fine a sé stessa, ma di per sé la curiosità fa parte del desiderio naturale di conoscenza, che non condanna affatto, che anzi in quanto dotazione naturale ha una sua ragion d’essere («la natura non fa nulla invano», ripete nel Convivio, con Aristotele). La curiosità, o il desiderio naturale di conoscere fa parte dell’essere umano, ma può avere effetti diversi e opposti, secondo come viene indirizzata.
Il desiderio naturale di sapere ci conduce al tema centrale del Canto: la conoscenza. Ulisse ha il doppio volto della vita attiva e della vita contemplativa. La prima, in quanto incarna il navigatore, scopritore e conquistatore, la seconda in quanto incarna il desiderio naturale che può trasformarsi in cupidigia di conoscenza. Due volti di un’unica prassi umana, in quanto si contempla in vista dell’agire (Monarchia I, 3, 4). Il principio vale anche per Ulisse, nonostante trapasserà il segno, sia nell’azione che nella conoscenza.
Dicevamo, Ulisse è allo stesso tempo moderno e antico, e in quanto tale è espressione di quella cultura greca, la cui riscoperta a partire dalla prime traduzioni dei testi di Aristotele stava avendo un impatto profondo sulla cultura a lui contemporanea e a Dante stesso, ma vista, allo stesso tempo, con gli occhi di Virgilio, il quale nel noto passo del’Eneide (VI, 847-850), pur lodando le capacità artistiche e l’arte oratoria dei Greci, ricorda che il talento dei romani dovrà essere quello del governo dei popoli. Ciò rispecchia il giudizio ambivalente dei romani nei confronti dei greci, della cui civiltà furono allo stesso tempo vincitori e realizzatori (Graecia capta ferum victorem cepit), dato il disfacimento prematuro della civiltà greca, seguito all’imperial overstretch di Alessandro Magno. Solo con le arti dello spergiuro e ingannatore Sinone i Greci riuscirono a vincere Troia (Eneide, II). A sua volta condannato da Dante tra i falsari di parola (erno, XXX) «Secondo il τόπος letterario diffusissimo sin dalla latinità: i Greci sono gente superba, crudele e nefanda (cfr. Inferno, XXVIII, 84)»12.
Ricordiamo, ci deve essere rapporto tra l’invettiva contro Firenze e il resto del canto. Firenze che «per mare e per terra batte l’ali» ci rimanda al folle vole di Ulisse, contrapposti al volo dell’Aquila descritto nel paradiso. Per Dante la storia è stata segnata dal peccato di Adamo, risanato dalla morte di Cristo, e per questo fu provvidenziale l’Impero romano, la cui affermazione, nella ordalia dei popoli per il dominio mondiale, fu espressione del volere divino, in quanto lì doveva nascere Gesù e lì essere ucciso per rimediare al peccato originale. O, diremmo, metterci una pezza (se il termine non suonasse irrispettoso), poiché il sacrificio di Cristo, a causa della natura umana che restava corrotta, fu presto infirmato involontariamente da Costantino che con la sua donazione riportò il disordine nel mondo, dando il potere temporale alla Chiesa, provocando una confusione tra potere temporale e potere religioso che fu l’origine dei mali successivi.
Dante cerca di comprendere il suo tempo attraverso categorie teologiche e mitologiche (anch’esse sono una forma di sapere), ad es. la lettura dell’Eneide come storia vera, comune ai suoi tempi. Nonostante l’allora limitata conoscenza dell’antichità, Dante aveva un robusto senso della storia. Avvertiva (e a ragione, con il senno di poi) di vivere un’epoca nuova e cercava di decifrarla all’interno di una idea complessiva della storia, con le categorie che aveva a disposizione. È significativa l’associazione tra Firenze e Ulisse (quale simbolo della cultura greca, la grecità di Ulisse è rimarcata da Virgilio). Essa implicava che Firenze, e l’Italia comunale, fosse segnata dal disfavore della Provvidenza come la Grecia di Alessandro, il qual era stato ad un passo dalla conquista della monarchia universale ma aveva dovuto cedere il passo a Roma (Monarchia, II, 8). La non provvidenzialità di Firenze e dei comuni italiani era attestata dal prevalere della cupida avidità di ricchezze che avevano distrutto l’armonia sociale della Firenze dell’avo Cacciaguida. Il giudizio si estendeva all’intera civiltà comunale italiana. e ai suoi ferocissimi e incomponibili odi tra città e fazioni all’interno delle città, di cui il Conte Ugolino è indimenticabile rappresentazione, fino alle lotte di potere tra papato e impero, dovute alla cupidigia dei papi . Dante riserva a Firenze le migliori invettive, ma non scherzano neanche quelle rivolte alle altre città. Firenze era con-dannata e con lei l’intera civiltà comunale.
Vi deve essere un rapporto tra la condanna di Ulisse e la condanna di Firenze. L’orazion picciola di Ulisse è solo un utilizzo fraudolentemente retorico di un ideale sacrosanto, come sostiene Padoan? «Alle parole di un greco non è da prestar fiducia (“timeo Danaos et dona ferentis… ”): presteremo fiducia a quelle di Ulisse, quando sappiamo che dietro il suo discorso può celarsi il sorriso dolcissimo di Gerione?»13. Greco era anche Aristotele, e l’orazion picciola, chiama in causa lo stesso Aristotele, come vedremo tra un po’, ma basti per ora ricordare l’inizio del Convivio che richiama l’inizio della Metafisica: «Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere».
Come sappiamo la ragione senza la fede non è un viatico sufficiente per il cammino verso la salvezza, per questo Aristotele è nel sommo del Limbo e per questo Virgilio deve cedere il passo a Beatrice. L’insufficienza della ragione aristotelica però non implica una condanna (una negazione, in termini filosofici) come vorrebbe la sua associazione con Ulisse.
In che misura il discorso di Ulisse riguarda lo stesso Aristotele?
Poiché tale questione nella critica dantesca è pochissimo affrontata, per quanto io ne so, ho dovuto tentare personalmente una risposta. Solo Maria Corti affronta incidentalmente il problema, e Massimo Cacciari vi accenna in una conferenza, sostenendo che Ulisse incarna l’Aristotele physicus, senza l’Etica e la Politica, cioè l’averroismo.
Con Ulisse Dante prende le distanze dalla filosofia del Convivio. Secondo Cicerone le sirene attraevano i viaggiatori con la promessa di conoscenza14. Una «serena» di queste aveva già svelato in sogno a Dante in tutta la sua laidezza (Purgatorio, XIX). Beatrice al loro (re)incontro (Purgatorio, XXX e XXXI) muove a Dante, con dure parole, il rimprovero di non aver resistito in gioventù al canto delle sirene. Nella reprimenda iniziata nel canto precedente, non rivolgendosi di persona a Dante, Beatrice gli riconosce la grazia divina dell’ingegno che ha avuto in dono da Dio, ma è sprecato se virtù nol guida, si finisce per seguire false immagini di bene (Pur. XXX). Ben a ragione Dante doveva quindi «raffrenar l’ingegno» prima di incontrare Ulisse. Infine, Beatrice fa molto cristianamente sentire in colpa Dante, ricordando che lei si è recata fino all’inferno per poterlo salvare (ma si direbbe quasi che sia morta proprio per poi effettuare questo salvataggio), ma lui invece non appena morta, si diede altrui, ovvero alla donna gentile della Vita nuova, la Filosofia.
Se teniamo presente, in base a quanto sopra, che consapevolmente Dante rappresenta in Ulisse una parte di se stesso, possiamo apprezzare la sublime ironia con cui Dante insiste sulla sua stessa curiosità nei confronti di Ulisse. È la stessa ironia a cui tutti siamo inclini verso i comportamenti giovanili da scavezzacollo (per la curiosità Dante si protende verso le figure fiammeggianti giù nella valle e rischia di cascare giù dal costone di roccia dove è giunto con Virgilio), rafforzata dall’insistenza fanciullesca nel voler parlare ad Ulisse, ed espressa fanciullescamente nei confronti di Virgilio (Maestro, assai ten priego/. E ripriego, che il priego vaglia mille»). E curiosi sono soprattutto i fanciulli per Cicerone15. Pericolo filosofico quello in cui incorre(va) Dante, ma con rischi non meno gravi del rompersi l’osso del collo, poiché, quando si intraprende un viaggio di conoscenza, il rischio è di smarrirsi (nella selva), finire nella follia, e incorrere nella rovina individuale. O, per dirlo con metafora nautica, perdere la rotta e affondare, come Ulisse. È un’ironia che possiamo permetterci solo quando siamo certi di esser usciti fuor dal pelago a la riva.
Di preciso cosa Dante del Convivio riteneva fosse frutto degli «errori di gioventù»?
Maria Corti, con l’espressione «felicità mentale» indicava la riscoperta dell’ideale dell’eudemonismo intellettuale aristotelico, la conoscenza quale ideale di vita che nella contemplazione raggiungeva il suo compimento e felicità ultima. In seguito alla diffusione della filosofia araba, alla riscoperta e traduzione dei testi aristotelici nel XIII secolo, e alla nascita delle prime università a Parigi, Bologna e Oxford, nasceva una cultura «laica» (cioè esterna all’ambito delle istituzioni religiose) centrata sulla ripresa dell’eudemonismo intellettuale aristotelico. Questa filosofia fu frequentata in gioventù da Dante, insieme al suo «primo amico». Un’indicazione di questi rapporti veniva dalla scoperta della dedica a Cavalcanti in una delle copie della Quaestio de Felicitate di Giacomo da Pistoia.
L’ideale della «vita contemplativa» è condiviso da Dante nel Convivio (esordio):
«la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti».
Cavalcanti, o la sua ombra, turba la coscienza di Dante, ritorna in tutta la Commedia, come scrisse Gianfranco Contini e come ha scritto più recentemente Enrico Malato. Come Ulisse, aggiungerei. Se è vero che Donna me prega è una raffinata «polemica non dichiarata»16 nei confronti di Dante, quando Guido si dichiara «fuor d’ogni fraude», possiamo immaginare a chi alludesse. Solo nel discorso di Ulisse nella Commedia troviamo il termine «canoscenza»17, utilizzato, a sua volta, da Cavalcanti nella canzone suddetta. Se questo solo termine può sembrare indizio insufficiente per scorgere ora in Ulisse il volto di Cavalcanti, si tenga presente che un analogo calco dei versi cavalcantiani è in Purgatorio XXV riguardo il «possibile intelletto», concetto strettamente connesso al contenuto dell’orazion picciola. La condanna per frode di Ulisse vuol dire ritorcere all’accusante l’accusa di frode18. Dunque l’orazion picciola sarebbe frode? La questione è complessa.
L’interpretazione di Nardi ascriveva la canzone Donna me prega a quell’averroismo radicale non dissimile all’epicureismo di coloro che «l’anima col corpo morta fanno». Boccaccio narrava nel Decamerone che Guido «alquanto tenea dell’oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse »,. Per epicureismo, di cui è condannato Cavalcante padre, era da intendersi più che altro la negazione del dogma dell’immortalità dell’anima, in quanto « la dottrina averroistica coincideva in pratica coll’opinione d’Epicuro esso è per logica conseguenza una sostanza separata e unica per tutti gli uomini, non è più possibile parlare di sopravvivenza dell’anima individuale; individuale è certamente l’anima sensitiva, che sola è forma e perfezione del corpo; ma essa muore col corpo»19. La canzone è volutamente enigmatica, alcuni versi non sono chiarissimi tuttora neanche agli specialisti, tuttavia ciò che conta per noi è ciò che ne pensava Dante, non per la comprensione della poesia cavalcantiana, ma per la comprensione di Cavalcanti quale personaggio ombra nella Commedia, che non deve necessariamente coincidere con il personaggio reale. Cavalcanti padre è condannato nel girone degli epicurei e degli eretici, ed è abbastanza ovvio che ci sia in vece del figlio, in ogni caso, alla sua domanda perché suo figlio Guido, pari a lui per ingegno, non fosse con lui, Dante risponde «qui mi mena/forse cui Guido vostro ebbe a disdegno», cioè Beatrice20, ovvero la patrocinatrice del viaggio salvifico e simbolo della fede.
L’analisi del canto di Ulisse è uno snodo centrale nell’indagine della Corti, poiché proprio Ulisse veniva ad incarnare nei famosi versi l’ideale della «felicità mentale», in tal modo Ulisse veniva associato con l’averroismo di Cavalcanti, soprattutto per la canzone Donna me prega, ma insieme ad esso i magistri artium bolognesi, con la scoperta della dedica a Cavalcanti della Quaestio de felicitate di Giacomo da Pistoia, e con Boezio di Dacia, esponente di primo piagno dell’averroismo e aristotelismo parigino. «Cosí Dante, nel condannare una certa posizione di pensiero, ne immortala l’esistenza e il messaggio, trasformando gli intellettuali stessi in auctoritates parlanti per bocca di Ulisse»21. Ma in che misura la condanna riguardava lo stesso Aristotele?
Sorprendente è il modo in cui la Corti espone la sua interpretazione dei famosi versi:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
«Ma questo è Aristotele bell’e buono nell’Etica Nicomachea: il paragone con l’animal brutum, il suggerimento della operatio boni e della cognitio veri.» Nella pagina successiva, tuttavia, ci chiarisce che abbiamo capito male, no, non è Aristotele, bensì è «con gli enunciati dell’aristotelismo radicale che Ulisse arringa i suoi, non con il puro Aristotele»22. In merito rimanda alla Questio 5 dei Modi significandi di Boezio da Dacia, esponente di rilievo dell’aristotelismo radicale. Ma lo stesso concetto enunciato con le stesse parole ritorna nel De summo bono, che ugualmente Dante conosceva secondo la Corti. Secondo Tullio Gregory «la delineazione della vita philosophi nel De summo bono di Boezio di Dacia rappresenta in modo esemplare la ripresa dell’antico ideale del βίος θεωρητικός»23. E allora, forse, ci dobbiamo ricredere di nuovo, l’orazion picciola potrebbe riguardare lo stesso Aristotele, cosa oltremodo sorprendente, e difficile da credere, poiché, come scrive la Corti, Aristotele è l’autore più lodato da Dante.
L’analisi della Corti ruota intorno al raffronto tra Dante e Cavalcanti, che partiva dall’analisi di Nardi relativa all’averroismo del primo amico, estendendosi poi all’aristotelismo radicale, che veniva a confondersi con l’averroismo dei magistri parigini e bolognesi. Indagini più recenti, quali quelle raccolte nel volume Le felicità nel medioevo, hanno distinto tra l’averroismo e la filosofia dei magistri più prossima all’aristotelismo.
Gianfranco Fioravanti nel volume Le felicità nel medioevo riconosce la fecondità del concetto di «felicità mentale», «un’intuizione geniale (per paradosso tanto più geniale in quanto non sempre sostenuta da analisi e raffronti testuali pienamente convincenti)»24, che aveva poi suscitato tutto un filone di studi successivi. Fioravanti apporta però alcune distinzioni tra la filosofia dei magistri artium e l’averroismo, soprattutto per quanto riguarda la «congiunzione con le sostanze separate, ossia come piena attuazione dell’intelletto possibile da parte dell’intelletto agente, secondo la tesi attribuita ad Averroè dai suoi lettori latini del XIII secolo»25. Fioravanti osserva, «è proprio vero che il progetto dei philosophi parigini è indissolubilmente legato alla dottrina, o alla favola, della copulatio con le intelligenze separate? Il De summo bono, ad esempio non vi fa il minimo accenno; l’unica conoscenza delle cause più alte di cui si parla è una conoscenza che procede dagli enti naturali, cioè, come afferma chiaramente il testo, dagli effetti». Quanto a Sigieri, «il filosofo brabantino riconosce i limiti della conoscenza umana quando essa, a partire dalla esperienza degli enti finiti, vuole estendere le sue affermazioni alla natura ed al modo di agire del Principio Primo»26. Luca Bianchi, in un saggio contenuto nel suddetto volume, mentre ritiene vi sia una maggiore vicinanza di Sigieri ad Averroè, ritiene invece assente l’averroismo di Boezio di Dacia, dato finora per scontato. Sempre nello stesso volume, per Irene Zavattero la Quaestio de Felicitate di Giacomo da Pistoia «per la formulazione della teoria della “suprema felicità umana”, attinge soprattutto al pensiero etico aristotelico» 27. In breve, ai tempi di Dante esistevano varie forme di «felicità mentali» e vi era una differenza significativa tra l’averroismo e la filosofia dei philosophi più prossima all’aristotelismo.
Questioni a cui fa riferimento Paolo Falzone nel suo lavoro dedicato principalmente al Convivio28, e in particolare al «forte dubitare» di Dante riguardo la «scienza che qui avere si può». Può essa rendere felici visto che non può attingere ad una conoscenza diretta di Dio? Per quale motivo la natura ci avrebbe dotati di questo desiderio di conoscere se ine non possiamo conoscere Dio attraverso le nostre capacità naturali?
Secondo Falzone la soluzione di Dante, non è un’uscita «inattesa» dal problema (come ebbe a dire Étienne Gilson in Dante e la filosofia), piuttosto frutto di un ragionamento svolto con rigorosa conseguenza logica e che essa non fosse solo di Dante, ma diffusa tra i philosophi, a riprova di ciò apporta la descrizione che ne faceva Enrico di Gand che in un passo «tratteggia e riassume la tesi dei philosophi»:
«Philosophi vero ponentes finem humanae cognitionis ex puns naturalibus haberi et in vita ista ex cognitione scientiarum speculativarum et primorum principiorum quantum homini possibile est, et quod in modica cognitione divinorum consistit eius summa perfectio et delectatio, licet non possit attingere ad quidditates substantiarum separatarum et eorum quae apud illas sunt, dicerent quod homo nullum appetitum haberet sciendi illa, ex quo ex suis naturalibus ad ea pervenire non posset, ne ille appetitus esset frustra»29.
L’assenza di brama verso la conoscenza quidditativa della sostanze separate può indurre in errore nella somiglianza con l’argomentazione di Dante, ma c’è un punto decisivo che distingue Dante dai philosophi (secondo la descrizione di quest’ultimi di Enrico de Gand), la soluzione di Dante esclude anche una modica cognitione divinorum in ambito filosofico:
Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe altre cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta.
Le tesi dei philosophi (con «philosophi, ossia, dobbiamo supporre, ai magistri della Facultas artium»30) sono solo in parte simili a quelle di Dante, il quale si differenzia anche dai filosofi più strettamente aristotelici, escludendo dalla filosofia anche una limitata conoscenza di Dio, luogo di un sapere esclusivamente terreno. È quanto rende effettivamente «radicale» la «soluzione» dantesca. Concordo con la definizione di Falzone, solo che è una posizione propria di Dante, diversa da quella dei philosophi.
Sostenendo che l’essere umano non può accontentarsi di «un po’ di Dio» in questa vita, Tommaso fonda la subordinazione della filosofia alla fede, in quanto esisterebbe un desiderio naturale, insito all’essere umano, di andare sempre oltre nella conoscenza che ci spinge verso l’infinito a conoscere Dio, ma tale desiderio può compiersi solo nell’altra vita e per mezzo della fede. Per Dante invece esso non fa parte della sfera naturale dell’essere umano, ma di quella soprannaturale, porlo nella sfera della conoscenza naturale vuol dire assimilare la conoscenza a quella dell’avaro che mira al «numero impossibile a giugnere». Sebbene non citato da Dante nel passo in questione, come osserva Nardi di fatto la concezione di Tommaso viene ad essere simile a quella dell’avaro descritta nel Convivio31. Ritorneremo sulla questione, importante per la definizione del concetto dantesco di cupidigia, ci basti questo per ora intendere perché in ambito filosofico è esclusa anche una conoscenza limitata di Dio, posizione che poi porterà alla netta separazione tra filosofia e fede della Monarchia.
La suddetta «soluzione» dantesca, secondo Falzone, è un «radicale naturalismo», una filosofia «assai più temibile per la fede cristiana di quanto non lo sia quella di Averroè»32. In effetti, il modo in cui Dante esce dall’impasse relativo all’inconoscibilità razionale di Dio poteva esitare in qualcosa di simile all’ateismo, ma era una strada che Dante non intendeva certo percorrere, anzi, oserei dire, a lui mentalmente preclusa. Non è da escludere che l’aver collocato Cavalcante padre, ed è ovvio che il giudizio si estendeva al figlio, poteva anche essere una netta presa di distanza, per evitare che si estendessero a Dante stesso le dicerie su Cavalcanti, riportate da Boccaccio, il quale si presume non se le fosse inventate di sana pianta, ma che fossero ancora diffuse ai tempi del Decamerone. Dante intendeva restare all’interno del cristianesimo (ma profondamente rinnovato dal suo viaggio profetico). Inoltre, l’ideale della vita contemplativa filosofica sfociava spesso un impolitico elitarismo, al limite del classismo, nel senso di una differenza ontologica tra filosofi autenticamente uomini in mezzo ai «bruti»33. Invece, nel cristianesimo tale frattura ontologica era assente. Un riflesso della preoccupazione di evitare le derive elitarie dell’eudemonismo intellettuale potrebbe essere il preciso elenco all’inizio del Convivio dei diversi ostacoli materiali alla formazione intellettuale.
Sebbene per il Dante del Convivio la «donna gentile» sia un’unione di fede e filosofia, e per quanto non metta ancora in discussione la preminenza della vita contemplativa, già si fa viva l’imprescindibile esigenza politica di Dante della fine del potere temporale dei papi, e della separazione tra potere temporale e potere spirituale, che porterà alla separazione tra fede e filosofia.
Anche Ulisse deve la sua ri-nascita ai dubbi in cui si dibatteva Dante, non meno radicale è il suo significato, come vedremo, ma in un senso più complesso di un diretto ateismo che lo conduceva fuori dal cristianesimo e dalla cultura del suo tempo.
Il trapassar del segno di Ulisse è oltrepassamento dei limiti della conoscenza umana, che invece doveva limitarsi in filosofia ad un ambito terreno (almeno nel tentativo di uscire dalle difficoltà in cui era incorso, per il resto nel Convivio vige l’unione di filosofia e fede). Il naturalismo del Convivio lo ritroviamo nella narrazione della vicenda di Ulisse. Come ben scrive Gennaro Sasso: «”Volta” la “poppa nel mattino”, dato ai remi l’impulso necessario al “folle volo”, protagonista assoluta fu, nella sua nuova e indecifrabile oggettività, la natura. Fu la forza che spinse la nave verso sinistra, nella direzione di sud-ovest. Furono le stelle rivelate dall’emergere dell’altro polo, mentre il nostro si inabissava tanto “che non sorgea fuor del marin suolo” (v. 129). Fu la luna che, accesasi cinque volte nel cielo, e altrettante spentasi, scandì, con i suoi tempi, le fasi della fatale navigazione. Fu la montagna “bruna” che, con il “turbo” che all’improvviso ne nacque, provocò, come “altrui piacque”, il tragico naufragio»34.
Una stretta identificazione di Ulisse con Boezio di Dacia, o con Cavalcanti, è restrittiva per una figura di portata universale come Ulisse. Infine è sempre Bruno Nardi che ci restituisce l’ampiezza della visione dantesca, nel suo magnifico saggio Dante e la filosofia35. La conoscenza umana secondo Aristotele è partecipazione alla Divina Sapienza, attraverso di essa l’essere umano si avvicina a Dio, nei limiti delle sue possibilità. Un concetto che risale a Platone36 ma comune anche alla cultura biblica, compresa quella araba e cristiana, fino ad Agostino e Tommaso. In merito, cultura pagana e cultura cristiana non erano in contrapposizione. Grazie a questo «misticismo» (Nardi) che accomuna Platone e Aristotele ad Agostino e Tommaso era sempre possibile subordinare la filosofia alla fede.
E Ulisse è l’uomo che dimentico dei propri limiti umani «trapassa il segno» e vuole assimilarsi a Dio, qualificandosi come continuatore del «primo parente».
Il canto di Ulisse è il momento della negazione, è il momento del rifiuto di un’intera cultura nella quale Dante si era formato in gioventù. Come osserva Enrico Fenzi37, nell’incontro con Brunetto Latini Dante sancisce il fallimento del maestro nella formazione intellettuale di una nuova classe dirigente a Firenze. Nel Canto di Ulisse, che inizia con l’invettiva ultima e lapidaria contro Firenze, abbiamo la rottura finale con una cultura condivisa da Dante stesso, pur già con molte differenziazioni, ai tempi del Convivio.
La radicalità con cui Dante condannava la civiltà del suo tempo, ricordiamo che è un canto in cui si preconizza la distruzione di Firenze, trapassa nella radicalità della critica della cultura del suo tempo. Ulisse è figura della perdita del senso del limite umano, e dell’illusione di un completo padroneggiamento dell’uomo sul mondo attraverso il suo indiarsi.
Tuttavia Ulisse è una figura di passaggio, appartiene al momento della negazione. La condanna di Ulisse-Aristotele è un passaggio verso la separazione tra la filosofia e fede. La prima è fondamento del potere temporale, mentre la secondo riguarda l’ambito della salvezza individuale. Tale separazione assumerà forma definitiva nella Monarchia, ma il punto di partenza è nel Convivio. Alla conoscenza di Dio non si arrivava attraverso la ragione, ma attraverso la fede, mentre la ragione ha un ambito suo proprio e serve da fondamento alla felicità terrena, al cui ordinamento è preposto l’imperatore, per questo l’ideale della vita contemplativa viene condannato (negato) da Dante, in quanto commistione di fede e ragione che devono andare separate.
Sulla datazione della Monarchia, di stretta pertinenza della filologia, non posso che esprimere un’opinione, attenendomi alle questioni relative alla figura di Ulisse, è più coerente una datazione della Monarchia contemporanea o successiva alla composizione del Paradiso38. La Commedia è sembrata a tanti commentatori un ritorno ad un cristianesimo più ortodosso rispetto al Convivio perché , soprattutto l’Inferno, e in particolare il «canto di Ulisse», sono il momento della negazione. Più coerente pare l’evoluzione del pensiero dantesco se la guardiamo attraverso il modello tesi-antitesi-sintesi. Abbiamo una tesi: priorità della vita contemplativa in cui si compendiava la rinascente cultura filosofica del suo tempo. Essa viene negata attraverso la figura di Ulisse. Dopo la negazione abbiamo un movimento verso la sintesi nel Paradiso, con l’«enigmatica» presenza di Sigieri tra i Sapienti del Cielo del Sole, in vece di Averroè (sarebbe stato un po’ troppo collocarci direttamente il filosofo arabo) La lode di Sigieri fatta pronunciare da Tommaso che fu suo avversario in vita significa la conciliazione immaginaria tra contrari, ovvero intelletto possibile congiunto all’anima individuale, senza quindi negazione dell’immortalità dell’anima. Alla negazione seguirà la sintesi compiuta nella Monarchia, dove la teoria averroistica è il fondamento dell’autonomia del potere imperiale che deve realizzare la felicità terrena, creando le condizioni per il massimo dispiegamento dell’intelletto possibile, la realizzazione dell’umanità dell’essere umano. La filosofia (i philosophica documenta) è il fondamento della felicità su questa terra pertinenza del potere temporale autonomo dal potere religioso. Non a caso la Monarchia è stata opera messa all’indice dalla Chiesa Cattolica fino alla fine dell’Ottocento.
Nella Monarchia la teoria aristotelica viene recuperata, attraverso la decisiva chiarificazione del «gran commento» di Averroè, quale fondamento del potere temporale che nell’unità del genere umano deve realizzare la massima potenzialità dell’intelletto possibile. La realizzazione dell’umanità dell’uomo è un compito collettivo. Ciò riguarda la stessa teoria aristotelica, in quanto se ciò che è specifico dell’uomo è l’intelletto possibile, categoria irriducibilmente collettiva, l’essere umano può realizzare la sua umanità soltanto collettivamente, mentre l’ideale della vita contemplativa è un ideale individuale.
La Monarchia, frutto di un intero percorso, segna la storia del pensiero politico. Come scrive Giorgio Agamben, «Per questo la filosofia politica moderna non comincia col pensiero classico, che aveva fatto della contemplazione, del bios theoreticos, un’attività separata e solitaria (“esilio di un solo presso un solo”), ma solo con l’averroismo, cioè col pensiero dell’unico intelletto possibile comune a tutti gli uomini, e, segnatamente, nel punto in cui Dante, nel De monarchia, afferma l’inerire di una multitudo alla stessa potenza del pensiero»39.
La Monarchia presenta un’interessante e ancora attuale dialettica tra contemplazione e azione. Si contempla in vista dell’agire40. Teoria e azione sono solo momenti di un’unica prassi umana. Qualsiasi azione deve avere una cognizione dell’oggetto su cui vuole applicarsi. La contraddizione irrisolta in Aristotele tra vita contemplativa e vita attiva, riguarda, inoltre la contraddizione tra individuo e società, propria della condizione umana, che quando si trasforma in polarizzazione denota sempre un grave problema. Ulisse è espressione della polarizzazione individuale in cui può esitare l’esigenza insopprimibile di un’esistenza pienamente umana. Quando diventa impresa esclusivamente individuale, proprio in virtù della sua forza porta l’individuo in contrapposizione con i suoi doveri di essere umano appartenente alla società e quindi alla perdizione e alla dannazione.
Fatti non foste a vivere come bruti, d’accordo, ma come, nella sua vita, possiamo realizzare la nostra umanità, e non piuttosto ricadere in una forma di vita più simile quella delle bestie? La frode non è nell’esortazione a vivere da esseri umani, ma piuttosto nell’incapacità della filosofia di Ulisse di conseguire questo obiettivo, principalmente per il fatto che lo intende come un obiettivo personale. Considerato in termini non religiosi, il tema della salvezza investe l’essenza stessa dell’essere uomini, come può l’essere umano non smarrirsi nella vita? Realizzando la sua umanità, realizzando ciò che specificamente lo rende uomo, distinguendosi dall’animal brutum. Ma la conoscenza, capacità specifica dell’essere umano, è un’impresa collettiva, grande o piccolo che sia il contributo individuale, esso è sempre subordinato alla conoscenza collettiva che sopravvive all’individuo, basti pensare alla lingua attraverso cui accediamo al sapere collettivo che sopravvive all’individuo («intelletto possibile»). Ulisse ha smarrito la finalità terrena e umana del conoscere, che è un’impresa collettiva dell’essere umano in quanto essere sociale. A differenza di Enea egli non è alla ricerca di una terra in cui insediarsi e farne la sua patria, egli persegue un fine puramente personale («misi me per l’alto mare aperto e i suoi compagni sono strumento per questo suo fine, diventano tutt’uno con i remi fatti ali al folle volo41.
Molto interessante, dal punto di vista della storia del pensiero politico, è la tesi di Nardi42, secondo cui nella Monarchia attraverso il concetto averroistico di intelletto possibile abbiamo il recuperò della concezione comunitaria aristotelica (l’uomo come zoon politikon) in una società segnata dal peccato originale. Mi permetto di intrepretare in termini di sociologia storica. La comunità della polis, non ancora attraversata, almeno tra coloro che erano cittadini, da uno strutturale conflitto interno, poteva ancora postulare l’unità naturale tra i suoi componenti (l’uomo come zoon politikon, ma si dimentica sempre che tale uomo era il cittadino della polis). È rotta, invece, tale unità naturale, in una società più complessa, più articolata, differenziata e attraversata dai conflitti interni come era quella romana, anche nella fase conclusiva in cui visse Agostino. Il peccato originale agostiniano, e connessa necessità dello Stato, corrisponde maggiormente a questo secondo tipo di società, supper in termini mitico-religiosi. In fondo, cosa indica il mito del peccato originale, l’inevitabilità del male, cioè del conflitto tra gli uomini. La necessità della Monarchia, con a capo il monarca in cui si spengono tutti i conflitti interni, per Dante deriva dalla presenza della cupidigia, che, come vedremo, è una sorta di riedizione del peccato originale. La realizzazione della massima potenzialità dell’«intelletto possibile» è il recupero di un fine unitario nella «società di classe», se volessimo dirlo in termini moderni.
La Monarchia testimonia che Dante non abbandonerà l’ideale di una felicità terrena, di una vita pienamente umana espresso dai famosi versi, né dirà con Tommaso che è possibile realizzarlo solo nell’al di là. Certo, nell’ottica di tutto uno sviluppo del pensiero politico successivo potremmo dire che la Monarchia è segnata da un universalismo utopico, che è un’uscita utopica dalla strada senza uscita in cui si era cacciata la civiltà comunale italiana, e volendo possiamo considerare il passaggio dall’individualismo del bios therotikos all’universalismo della monarchia universale come segnato dalla furia del dileguare hegeliano nel suo capovolgimento dell’individualismo in universalismo. Tuttavia è epocale il contributo di Dante all’adeguamento e allo sviluppo del pensiero politico classico aristotelico ad una società complessa. Il fine di una vita pienamente umana viene recuperato come fine collettivo, e a ragione, poiché in quanto fine esclusivamente individuale esso non può che condurre allo scacco individuale, simboleggiato dal destino di Ulisse.
È sempre e solo questo il fine: realizzare una vita degna dell’essere umano, tanto sul piano individuale che collettivo. Bisogna ricordarlo, proprio oggi che pare smarrita ogni finalità autenticamente politica, ognuno perso nella sua «bolla individuale» scientemente gonfiata da chi manovra i «social», quando sembra una lontana illusione ogni idea di una vita autenticamente umana, ogni idea di riacquisire un controllo sull’immenso Apparato creato pur sempre dall’attività umana, quando lo smarrimento collettivo è sinistro preludio a qualche nuova tragedia che ci riserva l’Inferno del Capitale,
Già quanto detto può dare un’idea della radicalità del simbolo dantesco, che riguarda le radici della nostra cultura, ma ne potremo mostrare tutta l’ampiezza estendendo, nella prossima parte, il discorso al rapporto dell’Ulisse dantesco con la cupidigia, che la fa da padrone nell’inferno del capitale (Non a caso Marx fu un grande estimatore della Commedia).
La figura di Ulisse era stata ri-evocata da tutta una serie di questioni che ruotavano intorno all’esigenza di una filosofia terrena, fondamento della felicità terrena, fondamento dell’autonomia del potere temporale dal potere religioso, principale soluzione dei gravi disordini della società comunale. Ma Ulisse, ritornato per inabissarsi nell’oceano, continuerà ad avere vita propria quale memento al lungo e non ancora concluso oblio dell’essere umano (occidentale) dei propri limiti umani, ovvero l’auto-equiparazione dell’essere umano a Dio, ovvero l’illusione di un completo controllo sulla natura, e in quanto tale riguarda Aristotele, quanto l’aristotelismo medievale, riguarda il cristianesimo, riguarda lo stesso Dante, riguarda la scienza moderna, che si crede in opposizione alla religione ma si basa sugli stessi presupposti. Riguarda l’intera cultura europea-occidentale.
La figura da lui stesso creata turba la coscienza e i sogni di Dante. L’ombra di Ulisse lo accompagna dal primo Canto in cui viene evocata la figura del naufrago, fino all’inizio del Purgatorio dove Dante scrittore rassicura il Dante personaggio della Commedia della grazia del dono poetico-profetico, per cui «com’altrui piacque» (Purgatorio, I) ha potuto raggiungere la spiaggia del Purgatorio, a differenza di Ulisse che «com’altrui piacque» (Inferno, XXVI) giace in fondo al mare. Nel Paradiso (XXVII) Dante, prima di ascendere all’empireo con Beatrice, vede dall’alto il «varco folle Ulisse», dopo che nel canto precedente Adamo gli ha detto di essere stato cacciato dall’Eden per il «trapassar del segno» (notare: canti XXVI e XXVII), cioè voler essere come Dio. Ormai il timore che il suo stesso viaggio fosse destinato a naufragare, perché non sotto il segno della grazia, è un lontano ricordo. Ma il suo Ulisse figuralmente immortalato nell’Inferno resta lì a ricordarci che non si può trasumanar senza trapassar del segno. «Così Ulisse muore, ancora e ancora, per i peccati di Dante».43
Ulisse «eroe della conoscenza» infine riguarda la scienza moderna nata dalla stessa volontà di potenza di cui sono espressione la filosofia e la religione44. La civiltà europea-occidentale è malata alla radice. Dante l’aveva intuito, prima della filosofia contemporanea.
Emanuele Severino appartiene ai grandi della filosofia per aver dedicato l’intero suo lavoro a farci acquisire la cognizione dei gravi problemi di fondo dalla nostra civiltà, che avrebbero origine in Platone che per primo cominciò a far «uscire ed entrare le cose dal nulla»45. Purtroppo, la hegeliana marcia trionfale verso la libertà che culminava con la Germania, si rovesciava in Severino in una lunga storia di follia ed errore. Karl Löwith, grande studioso ma non della stessa portata filosofica di Severino e Heidegger, egualmente reso edotto dalla Seconda guerra mondiale dei gravi problemi di fondo della cultura europea-occidentale, rispetto ai quali auspicava «ritorno alla physis», aveva un indirizzo più ragionevole rispetto alla condanna dell’intera cultura occidentale: massimamente riteneva il naturalismo di Spinoza in contro-tendenza, e quindi Goethe quale suo grande lettore. Diversi altri hanno pensato in contro-tendenza rispetto alla volontà di potenza dominante, o in contro-tendenza con diversi indirizzi del loro stesso pensiero. Cominciando da Aristotele che, nonostante il predominio del finalismo nell’intero suo sistema, ripristina ine la priorità della physis, concetto cardine della cultura greca, espresso da Eraclito: il mondo eterno e non creato dagli dèi46. Aggiungerei Machiavelli, Marx, ma credo che in diversi altri autori ci siano elementi per rifondare su basi diverse il pensiero occidentale, ripristinando la cognizione dell’inevitabile subordinazione dell’essere umano alla Natura che lo ha generato. Tuttavia, ha ragione Cacciari, è impossibile oggi, ripristinare il senso naturale degli antichi di dipendenza dalla Natura. Va ripristinato su basi nuove. Se il passato è solo errore, impossibile diventa un diverso futuro, a cui non possiamo giungere dal nulla, ma riprendendo i «sentieri interrotti» nel passato (credo che ciò intenda Agamben scorgendo un significato filosofico nella boutade di Flaiano: faccio solo progetti per il passato). Chi più eloquentemente dell’Ulisse di Dante ci avvisa dal passato che la nostra rotta va in collisione con la Natura?
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NOTE
1Elisa Brilli, Firenze e il profeta, Carocci, 2012, p. 107
2«Frattanto Roma si ingrandisce sulle rovine di Alba». Tito Livio, Storia di Roma. I,30 (UTET, 1974)
3Inferno, Introduzione, cronologia, bibliografia, commento a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, 1991. Vedi commento in merito della Chiavacci.
4Appello all’Unesco per liberare Dante dai dantisti, Edizioni dell’Orso, 2003
5Sergio Cristaldi, Il richiamo del lontano, in Lecturae Dantis. Dante oggi e letture dell’ Inferno, a cura di Sergio Cristaldi, Rivista “Le forme e la storia” n.s. IX, Rubettino 2016, p. 269
6ivi, p. 293
7D’Arco Silvio Avalle, L’ultimo viaggio di Ulisse, in Modelli semiologici nella Commedia di Dante, Bompiani, 1975
Numerose e sistematiche analogie vi sono tra l’Ulisse di Dante e i romanzi medievali «come risulta dalla frequenza dei rinvii, con l’Alexandreis di Gautier de Chatillon. Significative non solo in rapporto alla struttura delle due narrazioni, ma anche per talune coincidenze verbali che sarebbe in ogni modo malagevole spiegare come un prodotto del caso.» (p. 47) Mentre Curzio Rufo, a cui si fa L’Alessandreide, contiene già un riferimento alla «sete di conoscenza (“esuries mentis”) di Alessandro, “rex cognosendi plura cupidine accensus [re acceso dal desiderio di conoscere tutte le cose]. Tuttavia nei versi di Gautier essi si trovano per la prima volta strettamente uniti e per di più ben rilevati in posizione esordiale,
– Tua, regum maxime, virtus
-inquit – et esuries mentis […]
alla pari insomma, nonostante la diversa collocazione sintattica, di quanto avviene nel verso dantesco:
ma per seguir virtute e canoscenza »
Nell’Alessandreide c’è il tema dell’oltrepassamento delle colonne d’Ercole, ripreso da Rufo, e Alessandro viene definito. Al che Gautier si chiede quale sara il termine della fame di conquista e della sete di conoscenza di Alessandro, definendolo poi folle, «demens» (p. 53).
«Anagologie davvero soprendenti» presenta El libro de Alexandre, uno dei maggiori derivati dell’Alessandreide, che «quasi sicuramente Dante non ha conosciuto», in particolare, per l’appello ai compagni che da dieci anni hanno lasciato le proprie famiglie per seguirlo e la «cupidigia luciferina», di quel «folle che non conosce misura» quale Alessandro. Ma la «coincidenza verbale più straordinaria» è il passo in cui Dio dice « yol tornaré el gozo todo en amargura [io gli tornerò la gioia tutta in amarezza]» che richiama «tosto tornò la gioia in pianto» (p. 62).
8Epistole, I,2
9De finibus bonorum et malorum, V, 18
10Giorgio Padoan, l pio Enea, l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale, Longo Angelo, 1973, p. 196
11Simone Invernizzi, Dante e il nuovo mito di Ulisse, Academia.edu (pagina personale dell’autore)
12Padoan, op. cit., p. 191
13Ivi, p. 195
14De finibus bonorum et malorum, V, 18
15Idem
16Enrico Malato, Introduzione alla Divina Commedia, Salerno editrice, 2020, p. 30
17Enciclopedia dantesca Treccani, voce Canoscenza, https://www.treccani.it/enciclopedia/conoscenza_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
18«…un uomo “che sia vile” non può “servire” una donna che si trovi nella corte d’Amore: così Guido aveva ammonito Dante nel sonetto Se vedi amore (XXI). Questa concezione eroica dell’amore, comune alla poesia cortese del Duecento, è stata rinnegata da Dante nella Vita nuova con il passaggio alla poesia della lode, paga di se stessa, perché sottratta alla sanguinosa dialettica del rapporto con la donna: questa è, per Guido, più ancora che una vigliaccheria, una frode intellettuale.[…] E non ci può sfuggire che, come in un’acre rivalsa postuma, proprio nel girone dei consiglieri fraudolenti (Inferno, XXVI) Dante condanna, con Ulisse, tutti i cattivi maestri che ingannarono altri uomini con la folle superbia di una conoscenza non illuminata dalla fede, trascinandoli con sé nella dannazione eterna.» Noemi Ghetti, L’ombra di Cavalcanti e Dante, L’Asino d’oro, 2011, p. 146-147
19Dante e la cultura medievale, Laterza, 1983, p. 106
20«Il cui è riferito, ormai da tutti, a Beatrice – non a Virgilio, come molti intesero, interpretazione che
non dà senso convincente in questo contesto – che rappresenta la sapienza e la grazia divina.[…]Il significato complessivo della frase, su cui si è molto discusso, appare in ogni caso ormai certo: Guido ebbe a disdegno quella via di fede e di grazia – vale a dire, sul piano intellettuale, l’accettazione di una realtà trascendente e di una verità rivelata, e, sul piano spirituale, della propria insufficienza all’assoluto – che Dante invece, a un certo punto della sua vita, decisamente scelse. Qui passò la rottura fra i due amici, e di qui cambiò strada la poesia e lo stile del secondo». A. M. Chiavacci, nota integrativa al Canto X dell’Inferno, op. cit.
21Maria Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante. La felicità mentale – Percorsi dell’invenzione e altri saggi, Einaudi, 2003, p. 364
22Ivi, p. 278
23Mundana sapientia: forme di conoscenza nella cultura medievale, Storia e Letteratura, 1992, p. 25
24Le felicità nel Mediovevo, a cura di Maria Bettetini e Francesco 0. Paparella, LOUVAIN-LA-NEUVE, 2005, p. 5
25Ivi, p. IX
26ivi, p. 10-11
27ivi. p. 369
28Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante, Il Mulino, 2011.
29ivi, p. 234
30Ivi, p. 215
31Bruno Nardi, Dal convivio alla commedia (Sei saggi danteschi), Istituto storico italiano per il Medio Evo. 1992p. 74. Il passo di Tommaso in questione è nella Summa contra gentiles, III, 50
32Falzone, op. cit. pp. 217 e 219
33Su rischio che le differenza tra uomini comuni e filosofi sfociassero in differenze ontologiche nella dottrina averroista e nell’averrosismo vedi Luca Bianchi, Filosofi uomini e bruti, Rinascimento, s.s. 32, 1992
34Ulisse e il desiderio: Il canto XXVI dell’Inferno, Edizioni Viella, 2011 pp. 39-40
35Il saggio è contenuto nel volume Nel mondo di Dante, Edizioni “Storia e letteratura”, 1944
36Ecco perché anche ci conviene adoprarci di fuggire di qui al più [b] presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a Dio per quel che uomo può; e assomigliarsi a Dio è acquistare giustizia e santità, e insieme sapienza.Teeteto, C. 25,176b (Opere complete, Laterza, 2013)
Questo bisogna pensare dell’uomo giusto, anche se vive in povertà o colpito da malattie o afflitto da qualche altro di quelli che sembrano mali: che tutto questo si risolverà per lui in un bene in vita o anche in morte. Mai gli dèi trascureranno chi si sforzi di diventare giusto e coltivare la virtù per farsi simile a un dio nei limiti delle possibilità umane. Repubblica., X. 613 a-b Opere complete, Laterza, 2013)
37Dante ghibellino, La Scuola di Pitagora, 2019, p. 38-39
38Enrico Fenzi, Ancora sulla datazione della Monarchia, Academia.edu (pagina personale dell’autore)
39L’uso dei corpi, Homo sacer, IV, 2 Neri Pozza Editore. 2014, p. 269
40«Si è pertanto dichiarato a sufficienza che il compito proprio del genere umano preso nella sua totalità è di attuare sempre e completamente la potenza dell’intelletto possibile, in primo luogo per speculare e secondariamente, per estensione, per operare di conseguenza. » Dante, Monarchia, I, 4 (Mondadori 2015)
41: «His men, his “brothers,” now show their real relationship to Ulysses: it is an instrumental one. They are his oars». R. Hollander (Ed.), Dante Alighieri, Inferno, New York, 2002, p. 493
42Il concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, in Saggi di filosofia dantesca, La Nuova Italia, Firenze, 1967
43Teodolinda Barolini, The undivine Comedy. Detheologizing Dante, Princeton University Press, 1992, pp. 54 e 58.
44“La volontà di dominio che caratterizza la scienza moderna è resa possibile dall’apertura del senso greco del divenire. Solo se l’ente che si mostra nell’esperienza è inteso come un uscire dal nulla e un ritornarvi (e appunto questo è l’intendimento del pensiero greco), solo allora può sorgere quella forma radicale di volontà di potenza che decide di strappare gli enti dal nulla e di risospingerveli, conformemente al progetto che l’uomo vuol far diventare realtà.” E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, BUR 2004
45Ma cosa era questo “far uscire ed entrare le cose dal nulla” se non l’affermarsi del creazionismo? La discussione del problema ci porterebbe troppo fuori tema, per una discussione più ampia del pensiero di Severino vedi il mio lavoro Per un nuovo socialismo. Per l’orgine greca del creazionismo vedi David Sedley, Creazionismo. Il dibattito antico da Anassagora a Galeno.
46Questo ordinamento del mondo, il medesimo per tutti gli uomini, nessuno degli dèi o degli uomini lo ha fatto, ma è sempre stato, è, e sempre sarà: un fuoco sempre-vivo, che di misura si accende e di misura si spegne. 51 (30 DK; 20 B) (Bompiani, 2007)